Viaggio nel paese dei funerali: ‘Ogni famiglia piange il morto’

 

«No, fermo! Non salire in casa ho il Covid». La chiamata s’interrompe bruscamente. Un attimo dopo l’immagine di Danilo Belotti con mascherina sulla bocca compare sul «whatsapp» del mio cellulare «Dobbiamo parlare così altrimenti ti contagio».

Mi guardo intorno. Lassù s’allunga la val Brembana. Quaggiù Nembro è un villaggio fantasma. Il negozio di abbigliamento Attimi ha la porta d’ingresso coperta da un eloquente «Chiuso per lutto». E di lutti ne sa fin troppo anche Danilo, 48 anni, fedele lettore del Giornale: «Mia madre se n’è andata ieri, mio padre una settimana fa. Io invece oggi non ho più la febbre. Spero di cavarmela, ma non so che ne sarà di me. Prima del Covid facevo il geometra a partita Iva. Ora faccio il malato senza stipendio, perché a me malattie e lutti non li paga nessuno». Ma a Danilo dei soldi non può importare di meno. Il suo unico dramma è l’addio a quei due genitori morti soli e lontani. Senza una parola di conforto. Senza una carezza.

È iniziato tutto tre settimane fa. «Mio padre è stato ricoverato ad Alzano Lombardo e da quel momento non l’abbiamo più visto. Ce l’hanno fatto vedere per due minuti quando era già in coma. Pochi giorni dopo la sua morte hanno portato via mia madre. Ieri mattina ci hanno detto che era morta. L’unica che l’ha vista è stata mia sorella mentre la mettevano nella bara. Nel frattempo ho perso almeno altri venti fra parenti, amici e conoscenti». Un brivido mi gela la schiena. Nembro più che un paese sembra un mattatoio di umani, l’epicentro di un flagello biblico. L’assessore ai lavori pubblici Matteo Morbi, 46 anni, mi riceve davanti alla casa della sorella. Sul cancello d’entrata sventola un lenzuolo bianco con disegnato un arcobaleno e la scritta «andrà tutto bene». In un minuto i dati sciorinati da Matteo cancellano quello sprazzo d’innaturale ottimismo. «Questo è un paesino di 11.500 abitanti dove dal 25 febbraio ad oggi il Covid ha fatto 91 morti. Ma la cifra ufficiale comprende solo quelli a cui è stato fatto il tampone. Se ci aggiungi i morti in casa senza tampone il numero sale. E poi vi sono circa 140 malati chiusi nelle proprie abitazioni in attesa di capire se miglioreranno o peggioreranno».

A descriverti la paura e l’inquietudine di Nembro ci pensa la sorella Mariarosa. «L’ululato delle ambulanze è quello che più inquieta. Ogni sirena è una fitta al cuore. Ci ricorda che a pochi passi dalla nostra porta si consuma una tragedia. Ci sforziamo di star sereni, abbiamo persino appeso quel lenzuolo al cancello. Ma è difficile. Ogni casa ha un lutto. Ogni famiglia ha perso un amico o un parente. C’illudevamo che la Cina fosse lontana e ce la siamo ritrovata qui nel nostro piccolo paese». La tragedia di Danilo, Matteo e Mariarosa si materializza dietro le cancellate del cimitero di Bergamo. «Qui in città abbiamo avuto 330 morti. Nella chiesa del cimitero ci sono 112 bare che attendono sepoltura. Facciamo un funerale ogni mezz’ora e dirottiamo le cremazioni fino all’Emilia Romagna», spiega l’assessore ai servizi cimiteriali di Bergamo Giacomo Angeloni. L’immagine umana di quell’emergenza è la signora Roberta Caprini, responsabile di Generali Bergamasca, la più grande agenzie funebre della provincia. Incollata ad un cellulare che non smette di squillare s’aggira per un magazzino pieno zeppo di bare incellofanate. «È sconvolgente di solito facciamo 1300 funerali all’anno, ma dal primo al 15 marzo ne abbiamo già fatti 500. Ormai rifiutiamo metà delle richieste e come se non bastasse rischiamo la vita. Mio padre e mio zio si sono ammalati e con loro molti dipendenti. Non abbiamo tute, guanti e mascherine perché il governo non ci considera categorie a rischio. La notte per me non esiste più. Lavoro fino a tardi e quando m’infilo nel letto non chiudo occhio. I funerali non sono più il mio lavoro, sono il mio incubo».

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