La crisi svuota tutti i negozi: così li “prendono” gli stranieri

Mohammed è in cima a una scala e si aggrappa con forza alla cornice di un’insegna impolverata. “Devo coprirla, forse la settimana prossima metterò un pannello di compensato”, ci dice mentre scende lentamente, mantenendosi in equilibrio sui pioli.

Siamo in via Emanuele Filiberto, a pochi passi dalla basilica di San Giovanni in Laterano. Il nostro interlocutore è un negoziante bengalese, e la targa che sta cercando di staccare in tutti i modi apparteneva a uno storico negozio di abbigliamento e accessori.

Dopo trent’anni di attività, i gestori hanno deciso a malincuore che non avrebbero rialzato la serranda: troppe spese per riavviare l’esercizio dopo tre mesi di stop e nessuna prospettiva per il futuro. Così i tre dipendenti che lavoravano nel negozio sono stati licenziati e le chiavi del locale restituite al proprietario. Dopo un paio di mesi è subentrato Mohammed, che qui ha aperto l’ennesimo minimarket della via.

La crisi del commercio che sta mettendo in ginocchio gli esercenti della Capitale non lo spaventa. Per portare a termine l’operazione ci spiega di aver chiesto un prestito: “In parte ho usufruito di quelli agevolati messi a disposizione dal governo e un po’ mi hanno finanziato degli amici”. Mohammed è titolare di un altro minimarket qualche serranda più in là. Gli chiediamo perché abbia deciso di aprirne uno nuovo a distanza di pochi metri. “Questione di licenza”, ci risponde. “L’idea – va avanti poco dopo – è quella di cambiare settore tra qualche mese”.

Da qualche anno a questa parte la strada che collega piazza San Giovanni a piazza Vittorio ha cambiato faccia. Le botteghe storiche hanno via via lasciato il posto alle attività gestite da stranieri: ristoranti etnici, minimarket, sartorie, lavanderie. Dopo il lockdown il numero di serrande abbassate fa ancora più impressione. Ha chiuso definitivamente il cinema, il negozio di pelletteria, l’enoteca, la tipografia. “Io mi trasferisco nel giro di qualche settimana, da qui ormai non passa più nessuno”, si sfoga il proprietario di un’orologeria. È pronto a scommettere che al posto della sua attività aprirà l’ennesimo bazar.

“In trecento metri di strada ci saranno almeno una decina di minimarket, è una situazione assurda, le istituzioni dovrebbero intervenire mettendo un limite alle aperture”, ci dice un altro negoziante. Ormai quelli storici si contano sulle dita di una mano. Nessuno di loro vuole farsi riprendere per paura di ritorsioni, ma hanno tutti qualcosa da dire. “Ci sentiamo abbandonati dal governo, per noi non c’è nessun tipo di sostegno mentre loro hanno la possibilità di investire nonostante la crisi, tanto se non pagano nessuno li va a cercare”, si lamenta uno di loro. Non si fidano dei nuovi vicini: “Non sappiamo chi sono perché spesso hanno identità fittizie e poi non hanno il nostro stesso modo di lavorare, fanno gruppo tra di loro e non ne vogliono sapere di integrarsi”.

“Arrivano continuamente bancali di merce eppure non c’è nessuno che compra e si lamentano come ci lamentiamo noi, più che commercio sembra un’occupazione del territorio”, attacca un altro negoziante. Gli esercenti della via sono reduci da un’estate nera: a luglio nella Capitale si è registrato un crollo delle vendite. Una flessione dell’11,7 per cento rispetto al 2019, che scende al -17 e -28 per cento con riferimento al settore delle calzature e dell’abbigliamento. “C’è stato un collasso del lavoro per colpa della crisi, dell’assenza di turisti e dello smart working”, confermano i commercianti.

Davanti a questa apocalisse, denunciano, “la politica è rimasta indifferente”. “Come faccio a usufruire dei prestiti del governo con queste prospettive economiche”, si lamenta un bottegaio. L’alternativa che si profila all’orizzonte per molti è solo una: la chiusura. “Il danno sarà enorme – affermano in coro – le nostre attività illuminano la città e la rendono viva”. “Se chiudono i negozi storici, messi in ginocchio dalla crisi, come fanno questi minimarket a garantire l’affitto e pagare le spese?”, domanda provocatoriamente Augusto Caratelli, presidente del Comitato Difesa Esquilino Monti. “Il fatto di replicare più volte nel raggio di poche centinaia di metri la stessa attività non quadra commercialmente, così – avverte – si desertifica la via”. Il risultato, accusa, è già sotto gli occhi di tutti: “Qui non passa più nessuno e i commercianti storici se ne vanno per disperazione”.