UCCISO A 10 ANNI A COLTELLATE DAL PAPÀ: “ECCO PERCHÉ L’HO FATTO..”

La cronaca nera ci restituisce troppo spesso casi di vittime innocenti, di corpicini martoriati proprio da chi, più al mondo, avrebbe dovuto proteggerli e amarli incondizionatamente, al di sopra di tutto.

Pensiamo a Sarah Scazzi, uccisa e gettata in pozzo, dalla cugina e dalla zia; pensiamo al piccolo Loris Stival, o al delitto di Mascalucia, che dal 13 giugno ha lasciato l’Italia sotto choc.

Ancora non riusciamo a credere che, vittime di una vera e propria mattanza, di tutto questo orrore e crudeltà, siano proprio dei piccoli che hanno pagato a carissimo prezzo, con la loro vita, i rapporti tormentati da 2 genitori separati o sono stati uccisi con lucida freddezza.

Sono queste le storie di un’Italia che, in una sorta di abbraccio collettivo, si stringe attorno alle famiglie devastate che piangono i loro nipotini, i loro figli, rinchiusi in bare bianche, strappati per sempre ai loro sogni.

Come si può morire così? Come si fa a rimanere impassibili dinnanzi a questi casi così efferati? C’è un’altra storia che ha sconvolto il nostro Paese, accaduta un po di mesi fa. E ancora una volta, la vittima è un innocente.

Lo scorso 16 novembre, il piccolo Matias, uno splendido bimbo di soli 10 anni, è stato ucciso a Vetralla dal padre, il manovale 45enne Mirko Tomkov. Come riportato da Il Messaggero, l’uomo, ovviamente in carcere con l’accusa di omicidio volontario, in aula, davanti ai giudici della Corte d’Assise del Tribunale di Viterbo, ha raccontato i momenti precedenti il figlicidio. Matias sapeva che il padre non poteva avvicinarsi alla casa in cui viveva con la mamma Mariola, avendo, il Tomkov, ricevuto un divieto di avvicinamento a seguito di episodi di maltrattamento e di un allontanamento dalla casa familiare.

Ero ubriaco, Matias gridava e l’ho fatto smettere”, queste le parole pronunciate dall’uomo. Sul corpo del piccolo, oltre allo scotch, sono state inferte tre coltellate. Un racconto dell’orrore, quello della ricostruzione dell’omicidio, compiuto 7 mesi fa, in cui ripercorre tutto quel che ha fatto da quando è uscito dall’ospedale dove era ricoverato per Covid, sino all’arrivo nell’appartamento di stradone Luzi. Tomkov aveva visto l’ultima volta il figlio in videochiamata la sera precedente, ossia il 15, mentre il giorno dopo, il 16, si è riuscito a intrufolare in soffitta, dopo aver trovato le chiavi di casa, nascoste in delle ciabatte collocate fuori la porta. Ha bevuto e fumato, aspettato il rientro del figlioletto.

Matias è rientrato col suo zainetto con le rotelle e, vedendolo, gli ha urlato di andarsene. A quel punto l’ha scaraventato a terra, lo ha messo nel lavandino del bagno, mentre il piccolo continuava a gridare. Le urla erano fastidiose tanto che, per farlo smettere, ha avvolto la faccia del bambino con dello scotch. Rispetto al ferimento ha dichiarato: “Il coltello l’ho preso alla fine, ma non mi ricordo”. 

Tomkov nella casa di Cura di Vetralla sarebbe entrato già ubriaco, portando con sé bottiglie di vodka e una tanica contenente cinque litri di benzina. Per l’accusa, l’uomo avrebbe coperto il volto con dello scotch, per poi accoltellarlo alla gola, nascondendo il cadavere in casa e cospargendo di benzina l’abitazione. E’ stata la madre a trovare il corpo esanime di suoi figlio, chiuso all’interno del cassettone del letto matrimoniale. Il suo carnefice è stato rinvenuto privo di sensi e trasportato in ospedale Belcolle di Viterbo. Dalle indagini è emerso che avesse seri problemi di alcolismo e violenza.

Momenti agghiaccianti, quelli che ripercorrono il figlicidio, in cui l’operaio polacco non ha mai mostrato alcuna emozione. Il suo racconto è stato ascoltato in un silenzio tombale, interrotto solo dalle domande. L’uomo ha negato di aver maltrattato la moglie, mentre il legale della donna ha depositato nuovamente una certificazione dello psichiatra che ha in cura la 35enne, in cui è attestata la sua impossibilità a prendere parte al processo. L’8 luglio si torna in aula per la sentenza.