La vittoria del “Sì” al referendum non è più scontata. Ora l’onda lunga del “No” può travolgere il governo

In principio c’era la certezza del sì. Perché pensare che gli elettori si sarebbero lasciati sfuggire l’occasione di tagliare la testa per referendum a ben 345 parlamentari? I Cinque stelle usciti vittoriosi dalle urne chiusero l’accordo con la Lega, poi con il Conte bis lo ottennero anche dal Pd, in cambio di riforme che non sono ancora mai arrivate.

Eppure dal 2018 a oggi molto è cambiato, e coloro che mormoravano «no» solo tra amici e compagni hanno man mano alzato la voce, in sintonia con i sondaggi, e anche condizionandoli con argomentate obiezioni.

Una volta il «no» era una causa persa, difesa da integerrimi costituzionalisti come Gianfranco Pasquino o economisti esperti di spending review alla Carlo Cottarelli, convinti come gli azzurri Andrea Cangini e Simone Baldelli, bastian contrari come Gianni Cuperlo, il filosofo Massimo Cacciari, o da più o meno piccoli partiti di nicchia come il Psi di Riccardo Nencini, Più Europa di Emma Bonino, Leu di Pietro Grasso, il Pci di Marco Rizzo, Azione di Carlo Calenda. All’azzurro Cangini si può concedere una sorta di diritto di primogenitura: «Quando nel 2019 con la Fondazione Einaudi ho iniziato a raccogliere le firme i sondaggi davano al sì il 90 per cento e nel 10% c’erano anche gli indecisi. Le persone ora stanno lentamente comprendendo che cittadini e territori resterebbero senza rappresentanza, che è una battaglia della politica contro la demagogia». Lo scorso febbraio poi è nato il Comitato democratici per il no: da Giorgio Gori a Tommaso Nannicini a Gianni Pittella a Daniele Viotti.

Così, se l’opposizione alla ghigliottina di deputati e senatori era stata in mano a un gruppo di avanguardisti paragonati al «giapponese nella foresta che non sapeva che la guerra è finita», ora si può dire con espressione trita ma efficace che il clima è cambiato. Il presidente del Pd, Matteo Orfini, dopo mesi di perplesso rispetto delle regole di partito, si è smarcato del tutto, certo che non solo lui ma militanti ed elettori voteranno no: «Me ne sono accorto parlando con loro alle feste, alle iniziative e poi stanno nascendo tanti comitati. Non solo i militanti, ma anche gli elettori più attenti la considerano una battaglia in difesa della politica. Penso che larga parte di chi vota Pd dirà no». Nel mare della sinistra naviga pure il no delle Sardine.

Matteo Salvini ha ribadito che voterà sì ma sostanzialmente ha lasciato liberi i leghisti, più o meno come Renzi con Iv, Silvio Berlusconi ha definito il referendum «demagogico», Nicola Zingaretti per persuadere i dem al sì ha affrontato una direzione che ha lasciato ferite. Tra i «dissidenti» Romano Prodi, Rosy Bindi, Luigi Zanda. Si apprende d’altra parte di un centinaio di ex missini o ex An che sfidano il sì di Giorgia Meloni e anche in Fdi non mancano scettici di peso come Guido Crosetto. Persino nei 5stelle Matteo Mantero si è schierato per il no: «I governi vogliono agire senza che nessuno rompa i c…».

La partita ha cambiato totalmente ritmo. Ecumenico il gesuita direttore della Civiltà cattolica, padre Antonio Spadaro: «L’importante è che ognuno si informi liberamente. La Chiesa su questo non ha nulla da dire». Da ambienti Cei era arrivato un più allarmato: «Guai a compromettere l’equilibrio dello Stato». Spiega Renato Brunetta, tra i più decisi per il no: «Dall’ultima votazione in Parlamento, in cui anche Forza Italia ha votato sì, è cambiato il mondo. Era stata una votazione svogliata, subalterna all’antipolitica, ma ora vedi i Cinque stelle finiti, la gente ha paura di perdere rappresentanza, c’è stata la pandemia, la crisi attanaglia. Se prevarranno i sì è per un trascinamento inerziale». I moti di cambiamento sono scoppiati, si tratta di vedere se sarà rivoluzione.

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