Giudice condannato, lo sfogo degli impiegati: «Tante le toghe come lui»

A Milano ci sono giudici col vizietto del «lei non sa chi sono io», toghe che sventolano il tesserino da magistrato per ottenere trattamenti di favore.

Uno per questo è finito sotto processo ed è stato condannato: Giorgio Alcioni, in servizio alla settima sezione civile fino a quando, dopo la condanna a due anni e otto mesi per concussione, è stato messo sotto procedimento disciplinare. Ma proprio dalle motivazioni del processo ad Alcioni, depositate nei giorni scorsi a Brescia, si scopre che alcuni dei comportamenti attribuiti all’imputato sono condivisi da altri suoi colleghi. Negli uffici comunali che si occupano di urbanistica e edilizia accadono sgradevoli faccia a faccia tra impiegati e toghe decise a far valere il loro status. A raccontarlo in aula è il testimone Giancarlo Bianchi Janetti, dirigente del settore. Quando il tribunale gli chiede se comportamenti come quello di Alcioni si verifichino spesso, risponde: «Tutti i giorni». Fatti esposti anche all’assessore? «Tutti i giorni, sempre». Anche da parte di magistrati? «Sì».

Assodato che il giudice Alcioni non è una perla rara, resta la gravità dei comportamenti che la sentenza di condanna gli attribuisce. Tutto ruota intorno al progetto del bar «Birillo» di viale Monte Nero di traslocare nei locali di fronte ed espandersi, trasformando in locale pubblico anche l’appartamento del primo piano. Ma al secondo piano abita con la moglie il giudice Alcioni che scatena una guerra personale contro il trasloco del bar e i lavori di ristrutturazione. Una guerra legittima negli obiettivi ma condotta con metodi che il tribunale di Brescia – cui la vicenda è approdata per competenza – ha ritenuto in larga parte inammissibili.

Alcioni è stato assolto per l’accusa di avere minacciato Emanuele Marinoni, proprietario del «Birillo»: l’atteggiamento del giudice viene definito «inutilmente provocatorio e presuntuoso», «pedante e cavilloso», ma senza contenuto minatorio. Viene invece ritenuto colpevole – ma il reato è dichiarato prescritto – di abuso d’ufficio per l’episodio forse più sconcertante: quando per ingraziarselo nomina per otto volte consecutive come consulente in cause a lui assegnate l’ingegnere che deve dirimere la controversia tra il condominio e il bar. Quanto ai suoi attacchi agli uffici comunali, che vengono sommersi di ricorsi «inutilmente pedanti e ripetitivi», per la sentenza Alcioni supera i confini del lecito in due occasioni, quando fa irruzione pretendendo di vedere la pratica di ristrutturazione.

La prima volta non raggiunge il risultato, perché anche se urla «io sono un giudice del tribunale e pretendo», il capoufficio lo mette alla porta: e qui il reato è di tentata concussione. La seconda volta ad Alcioni va meglio, perché gli impiegati terrorizzati («Sono un magistrato, voglio questo fascicolo e lo voglio vedere subito») gli consegnano la pratica. In questo modo «ha fatto un esplicito riferimento alla sua professione non soltanto per essere accolto con maggiore deferenza e solerzia, ma per ottenere un trattamento di favore che il rispetto delle procedure non avrebbe consentito (..) l’obiettivo era vincere le resistenze della funzionaria e suscitare nella sua psiche, dall’alto della sua qualifica e della sua arroganza, il timore di subire ripercussioni negative». In conclusione, «rispondeva ad un preciso intento dell’Alcioni quello di operare una continua confusione tra la professione esercitata e la veste di privato con cui si presentava agli uffici comunali». Tanto che come recapito lasciava il numero del suo ufficio in tribunale.