Di Maio bastonato nega l’evidenza: «Colpa dell’astensione, non cambia niente»

Colpa dell’astensione. Luigi Di Maio spiega così la batosta del M5S, che dal voto di ieri esce con le ossa rotte. Quando manca solo una manciata di seggi ancora da scrutinare, il dato finale è 17,6%, a fronte del 32,7% delle politiche e del 21,1% delle europee del 2014. Una sconfitta senza appello, che diventa ancora più bruciante se si considera che i pentastellati sono stati superati anche dal Pd, arrivato al 22,7%. Dunque, il M5S diventa il terzo partito, dopo l’exploit della Lega, ampiamente atteso e attestato al 34,27%, e il sorpasso, meno scontato, dei Dem. Per Di Maio, però, tutto questo è colpa della «bassa affluenza». «Ci ha penalizzato, ma lo sapevamo. Quindi nulla di nuovo», ha sostenuto in una intervista al Corriere della Sera, con la quale ha rotto il lungo silenzio della notte elettorale, quando nessuno del Movimento si è fatto vedere nella sala della Lupa di Montecitorio, messa a disposizione dalla Camera come punto stampa per le dichiarazioni post-voto.

I conti non tornano
«Prendo atto che la nostra gente si è astenuta e attende risposte e noi queste risposte gliele vogliamo dare», ha proseguito il capo politico, con un ragionamento che però non sembra tenere in gran conto i numeri reali. L’affluenza alle urne, infatti, è stata, sì, più bassa delle precedenti, ma del 2,59%, vale a dire che se pure tutti gli astenuti fossero stati elettori M5S rispetto alle europee del 2014 (votarono il 58,69% degli elettori contro il 56,10% di ieri) comunque il partito sarebbe in perdita, mentre andrebbe poco più che in parità se il conto si facesse sull’affluenza delle politiche (l’astensione in quel caso è stata del 27%).

Di Maio non vuole mollare Palazzo Chigi
La lettura consolatoria, dunque, non regge. Ma è l’unica a disposizione del M5S, che a questo punto ha necessità di puntellarsi in ogni modo possibile, anche perché la posta in gioco resta Palazzo Chigi. Di Maio ha escluso passi indietro o rimpasti, che, ha sostenuto, «non avrebbero senso». «Quando si rivoterà per le politiche ne riparleremo», ha aggiunto, ribadendo che «il governo va avanti, perché continua ad avere ampiamente i numeri e perché c’è ancora tanto da fare». «Non cambierà nulla, anzi ripartiamo da oggi», ha insistito il vicepremier, e poco importa che di fatto questo governo non sia più rappresentativo degli italiani. «Non è la prima volta che attraversiamo un momento di difficoltà, sapremo uscirne come sempre». «Ad ogni modo restiamo l’ago della bilancia in questo governo», ha proseguito il leader pentastellato, negando problemi interni e annunciando per le prossime settimane «uno scatto in avanti nell’organizzazione», con «responsabili specifici di area e un centro di coordinamento più capillare nelle Regioni e nei Comuni». «Non stiamo facendo i 100 metri, ma una maratona e siamo in corsa», è stata la metafora usata per dire, in sostanza, che poca importa la volontà degli italiani, le poltrone di governo non si mollano.