“Se mi ammalo, come si fa?”. E Conte voltò le spalle ai lombardi

 

Perché Giuseppe Conte non si è mai degnato di far sentire la propria vicinanza alla Lombardia, la grande malata d’Italia che ha affrontato l’epidemia sopportando le sofferenze e i lutti senza che da Roma Palazzo Chigi facesse sentire la propria vicinanza? Perché la prima visita a quelle città martoriate dal Covid-19 risale soltanto il 27 aprile, oltre due mesi dopo l’inizio della pandemia? Cosa lo ha tenuto lontano? Secondo un retroscena di Francesco Verderami, pubblicato ieri sul Corriere della Sera, la paura.

Niente di più. La paura di ammalarsi, di prendersi anche lui quel virus maledetto che in quei giorni stava congestionando le terapie intensive di tutti gli ospedali del Nord Italia e portando tanti malati al campo santo.

Non è la prima volta che da ambienti governativi viene fuori la ferma volontà di Conte di tenersi lontano dalla Lombardia. Già ne L’ora zero, l’inchiesta coordinata da Carlo Bonini e pubblicata a fine maggio da Repubblica, aveva portato alla luce un aneddoto delle prime ore. È la notte tra il 20 e il 21 febbraio. Il premier si trova a Bruxelles per discutere al Consiglio europei il bilancio del 2021-2027. Una telefonata di Rocco Casalino lo coglie di sorpresa. “Abbiamo un problema”, gli dice. A Codogno un ragazzo di 38 anni ricoverato in terapia intensiva per una brutta polmonite è, infatti, risultato positivo al nuovo coronavirus che sta mettendo in ginocchio la Cina. Col passare delle ore le notizie non migliorano. Non c’è solo il focolaio nel Lodigiano. A Vo’ Euganeo, paesino in provincia di Vicenza, sono stati trovati altri due contagiati. Il vertice europeo non fa passi avanti e così, intorno alle cinque del pomeriggio, il presidente del Consiglio decide di far rientro in Italia. “Credo che dovremmo partire, e in fretta”, dice ai suoi. “Potremmo volare direttamente in Lombardia”, aggiunge. Due ore dopo atterra a Roma e va direttamente alla Protezione Civile.

Cosa ha fatto cambiare idea a Conte in quelle ore cruciali? Nella ricostruzione di Repubblica non vengono avanzate ipotesi ma viene comunque fatto notare che “non lasciare Roma per nessun motivo”, lavorando quindi in remoto da Palazzo Chigi o dalla Protezione civile, è “la linea che seguirà nei due mesi successivi”. Eppure, a più riprese, i governatori del Nord faranno pressioni sul premier per farsi vedere nelle regioni travolte dal virus. Una lontananza che ora possiamo dire dettata dalla paura di ammalarsi a sua volta. Come lui stesso ha ammesso in un confronto con il presidente lombardo Attilio Fontana che gli chiedeva di farsi vedere da quelle parti. “Vediamo… Sai, se poi mi ammalo, come si fa?”, gli avrebbe risposto il presidente del Consiglio. L’aneddoto è stato raccontato a Verderami da fonti governative e ventiquattr’ore dopo la pubblicazione non è stato ancora smentito. Quindi possiamo prenderlo per buono.

Lo schiaffo di Conte al Nord ferito

In Lombardia Conte si è fatto vedere soltanto mesi dopo, quando l’epidemia era ormai sotto controllo. Una visita che il bergamasco Roberto Calderoli ha definito “fuori tempo massimo”. “Una passerella non solo inutile, ma quasi offensiva… quando la Lombardia contava oltre 500 morti al giorno e non bastavano i letti negli ospedali non si è fatto vedere”. Che poi quella visita i lombardi se la ricordano ancora oggi: a Bergamo si era presentato dopo le undici di sera, mentre a Brescia era arrivato alle due di notte. A chi gli chiedeva conto di tutti quei morti rispondeva brusco: “Ho già parlato a Milano…”. E, quando una cronista di Tpi ha provato a strappargli di bocca una parola in più, l’ha liquidata con stizza: “Guardi, se lei un domani avrà la responsabilità di governo, scriverà tutti i decreti ed assumerà tutte quante le decisioni”. Parole che in quel momento hanno fatto male a tutti i lombardi.

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