La verità sulle terapie intensive

Le terapie intensive sono davvero ad un passo dal colasso? Finiremo come lo scorso marzo, con i reparti Covid saturi e centinaia di decessi giornalieri? Al virus l’ardua sentenza, verrebbe da dire bistrattando una celebre citazione manzoniana. Certo è che ”i numeri”, quelli forniti dal ministero della Salute in collaborazione con Cts e Iss, sembrano preannunciare l’inizio di una nuova ondata del virus.

Lungi da noi negare l’esistenza di una pandemia globale, o anche solo minimizzare la questione – seria lo è, eccome – va chiarito che l’incremento dei contagi non procede di pari passo con l’aggravvamento dell’infenzione. Lo aveva detto anche il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri, qualche tempo fa, che ”essere contagiati non vuol dire essere malati”. Una grande verità – tra le poche riguardanti il Coronavirus – sulla quale si sono spesi anche fior fior di professionisti del settore. La faccenda non va presa sottogamba, è chiaro, soprattuto perché ”nelle fasce a rischio” non ci sono solo nonni e bambini ma anche malati oncologici, immunodepressi e cardiopatici, ai quali le complicanze indotte dal virus potrebbero essere letali. Ma il cruccio maggiore resta quello delle terapie intensive: sono prossime alla saturazione? ”La situazione, al momento, è sotto controllo – spiega al Giornale.it il professor Americo Cicchetti, professore ordinario di Organizzazione Aziendale alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore di ALTEMS, Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari – ma non è eccessivamente rassicurante. Il tasso di occupazione delle terapie intensive, ad oggi, si aggira attorno al 5-6%”.

Il potenziamento degli ospedali

Con il DL 34/20 – Misure urgenti in materia di Salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19 – la commissione salute aveva disposto l’implementazione strutturale delle terapie intensive e la riqualificazione di quelle semi-intensive a fronte di una crescente necessità di ospedalizzazione per i pazienti Covid. Per le prime era stato fissato un parametro di 0,14 PL (posti letto) ogni mille abitanti, ovvero, 3500 sull’intero territorio nazionale. Circa le seconde, invece, il comma 2 prevedeva che fossero attrezzati a tale scopo 4225 posti letto di medicina generale e che il 50% di essi avesse caratteristiche impiantistiche tali da poter essere trasformati, alla bisogna, in Terapia Intensiva. La spesa complessiva, quella stanziata dall’Esecutivo con il DI Rilancio lo scorso maggio, ammontava ad un totale di 1,4 miliardi per il potenziamento degli ospedali, di cui 606 milioni da destinare alle terapie intensive e 601 per quelle subintensive. Inoltre, era stata messa da conto l’emandazione di un bando da 54 milioni (scaduto il 2 settembre) per 300 posti letto di terapia intensiva suddivisi in 4 ”strutture movimentabili”, ciascuna delle quali dotata di 75 posti letto da allocare in aree attrezzabili previamente individuate da parte di ciascuna regione e provincia autonoma. Considerando che i posti di TI ”pre-Covid” erano 5.179, ad oggi, avremmo dovuto avere una disponibilità più che raddoppiata nelle strutture Ssn per i pazienti necessitanti ospedalizzazione. Ma allora perché temere la saturazione? È evidente che qualcosa non torna. E non si tratta dei dati epidemiologici. ”Il tasso di saturazione va calcolato sui nuovi posti letto, quelli implementati col DL 34/20 – spiega il professor Cicchetti – E se rapportiamo il numero di attualmente ricoverati in TI sulle postazioni aggiuntive siamo già al 50/55%. Bisogna tenere conto che oltre ai malati Covid nelle terapie intensive ci sono anche pazienti affetti da altre patologie. E il punto è proprio questo. Di certo, non è pensabile svuotare gli ospedali degli altri malati per far posto a casi Covid come abbiamo fatto nella fase 1. Altrimenti vuol dire che dall’emergenza sanitaria non abbiamo imparato nulla”.

Solo 1279 posti letto in più

In riferimento all’ultimo report sulle terapie intensive diramato dal commissario per l’Emergenza straordinaria Domenico Arcuri, alla data del 9 ottobre 2020, risulta un totale di posti letto posti letto disponibili pari a 6.458 sull’intero territorio peninsulare. Considerando che la dotazione nazionale di partenza era di 5.179 PL , ad oggi, risultano realizzate 1279 postazioni, ovvero, il 36% – circa 1/3 – di quelle previste dal DI Rilancio. Un dato sicuramente allarmante in previsione di un balzo improvviso – ad oggi scongiurabile – dei pazienti richiedenti ventilazione assistita e cure precipue. La situazione si complica ulteriormente dal momento che la distrubuzione non è omogena da Nord a Sud del Paese. Solo tre Regioni (Veneto, Valle d’Aosta e Friuli Venenzia Giulia) risultano sopra lo standard di 14 posti letto per 100mila abitanti fissato dal Governo mentre tutte le altre sono ampiamente al disotto della soglia preventivata. Ma di chi è la responsabilità dei ritardi? Certamente, almeno in questo caso, non del virus. Ogni regione, come ben spiega il Quotidiano Sanità, ha dovuto presentare un piano al Ministero della Salute. Dopodiché, la richiesta è passata nelle mani del commissario all’emergenza per un confronto circa l’attuazione dei lavori. Ma il bando si è chiuso appena l’8 ottobre e solo 9 Regioni hanno ricevuto la delega da Arcuri per iniziare le opere. Ma non era stata messa da conto per l’autunno la famigerata ”seconda ondata”?

Le terapie intensive sono al collasso?

In riferimento all’ultimo Istant Report Altems, stilato alla data del 9 ottobre, in Italia solo il 6,55% dei ricoverati per Covid-19 ricorre al setting assistenziale della terapia intensiva. ”Il tasso di saturazione dei posti letto continua crescere seppur con percentuali molto basse – ha precisato Americo Cicchetti, docente di organizzazione aziendale presso la facoltà di Economia della Cattolica Campus di Roma – Per il momento, comunque non dobbiamo preoccuparci; nella maggior parte delle regioni il tasso di saturazione odierno, è ben lontano dai livelli di marzo”. Ma resta la spinosissima questione delle terapie intensive non ancora attrezzate in una eventuale prospettiva emergenziale di ospedalizzazione. Tenendo conto che la durata di permanenza di un ricoverato per Covid in TI è mediamente di circa 20 giorni e che la soglia oltre la quale le strutture sanitarie rischiano il collasso è del 30%, è chiaro che basterà un mero incremento dei contagi a far scattare l’allerta. Se ci sarà una saturazione dei reparti di TI, dunque, non sarà solo colpa del virus. ”C’è un problema di risposta alla situazione. – continua il professor Cicchetti – Le pandemie non si contrastano solo negli ospedali ma anche con una efficiente rete organizzativa territoriale. Basti guardare al Veneto, a tutte le risorse messe in campo durante la fase 1. Quella è stata una strategia che ha funzionato”.

A che punto è l’epidemia?

Gli ultimi rilevamenti effettuati dalla Protezione Civile (14/10/2020) riferiscono ”numeri record” per il dato relativo ai nuovi contagi: 7.332 nelle ultime ore. Per quanto riguarda le terapie intensive, invece, la situazione resta ancora sotto controllo con 25 pazienti in più rispetto alla giornata di martedì 13 ottobre in cui erano stati 65. La domanda è: ci stiamo avvicinando ai picchi dello scorso marzo? ”Le due situazioni non sono paragonabili. – chiarisce l’esperto – Anzitutto, adesso stiamo effettuando più tamponi ed è chiaro che sia ‘stanato’ un numero maggiore di infetti. Poi, va detto che, rispetto ai mesi clou dell’emergenza sanitaria è cambiata la proporzione tra contagiati asintomatici e sintomatici. Adesso sono in netta maggioranza i pazienti asintomatici rispetto alla fase critica dell’epidemia”.

Quali sono le regioni più a rischio?

C’è un divario innegabile tra Nord e Sud dello stivale. Il dato che più preoccupa è il fatto che solo tre Regioni (Veneto, Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia) sono sopra lo standard di 14 posti letto per 100mila abitanti fissato dal Governo con la Campania che ha appena 7,3 pl per 100 mila abitanti, l’Umbria (7,9) e le Marche (8,3), tutte ampiamente sotto la soglia. Quali sono le regioni più a rischio? ”Si rischia di più nelle regioni dove il piano di rientro è molto più lungo. – continua il professor Cicchetti – Mi preoccupa la Campania che ha un tasso di prevalenza molto alto in questo momento e deve sopperire alle carenze di 7/8 anni di restrizioni, tagli alla spesa pubblica, in pochi mesi”.

È tutta ”colpa” del virus?

Non siamo ancora in una situazione di emergenza, ma per le terapie intensive è già scattata l’allerta arancione. Se il trend dei casi continuerà a crescere, senza ulteriori misure di contenimento, avvertono gli anestesisti-rianimatori, le terapie intensive nel Meridione entreranno in sofferenza nel giro di meno di un mese. Ma di chi è la responsabilità? ” Non ci sono responsabilità uniche da attribuire agli uni o agli altri. Il problema è che è mancata l’organizzazione. – conclude il professor Cicchetti – Ogni regione ha provato a fornire il proprio modello di risposta all’emergenza sanitaria sulla base delle proprie possibilità. Non ha funzionato il rapporto tra governo centrale e regioni, questo è il punto. E ora rischiamo di dover correre nuovamente ai ripari. Il rischio che i contagi aumenteranno c’è ed ora bisogna accellelare i tempi. Bisogna essere veloci adesso”.