Il livello di segretezza era rinforzato. La rivelazione sul “Piano segreto” anti Covid

Un “Piano pandemico” che non esiste, benché il ministro lo abbia letto 11 giorni prima della sua approvazione finale. Un documento mai secretato, sebbene avesse un livello di riservatezza elevato. Un banale “studio ipotetico”, nonostante sia il Cts che la task force del ministero della Sanità fossero a conoscenza del gruppo di lavoro che per giorni ha lavorato alla realizzazione del “Piano” anti-Covid.

Sono tante le zone d’ombra emerse in questi mesi di pandemia: dalla predisposizione del documento, alla sua segretezza ancora in vigore, passando per la confusione fatta dal ministero tra il “Piano” e l’analisi di Merler. Ombre che ora ilGiornale.it può chiarire avendo avuto accesso a informazioni riservate ed accreditate. Lo studio di Stefano Merler, ricercatore della Fondazione Bruno Kessler, e il “piano pandemico” elaborato dai tecnici nominati dal premier Giuseppe Conte sono due cose distinte. Sono concatenati l’uno all’altro, ma sostanzialmente diversi. Quello che Merler presenta il 12 febbraio al Cts è, infatti, una relazione composta sostanzialmente da proiezioni e studi matematici. Si fermava lì e non dava indicazioni. Niente a che fare, quindi, con le linee guida e gli scenari che verranno poi inseriti nel piano elaborato interno al Comitato tecnico scientifico. Quello che ne esce fuori (oltre due settimane dopo l’analisi di Merler), infatti, è un lavoro molto più complesso. Perché allora, quando i cronisti domandano di vedere il “Piano”, ministero e Protezione civile inviano loro lo studio di Merler? E perché il ministero confonde i due testi? Lo “studio” del matematico è stato solo prodromico alla composizione del piano pandemico. Merler era infatti considerato il matematico di riferimento del ministero ed è in questa veste che ha presentato ai tecnici di Conte le proiezioni su un’eventuale diffusione del coronavirus in Italia. Quel che è certo è che il suo lavoro non poteva essere assolutamente presentato come piano. Che infatti è stato realizzato solo in un secondo momento.

Il 12 febbraio, come emerge dai verbali del Cts, all’interno del Comitato nasce il gruppo di lavoro ristretto per la preparazione del “Piano”. A quel tavolo sono presenti sette persone. Tra questi ci sono il direttore scientifico dell’ospedale Spallanzani, Giuseppe Ippolito, i presidenti dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro e della Protezione Civile Agostino Miozzo, Claudio D’amario (segretario Generale del Ministero della salute, Giuseppe Ruocco (direttore generale della prevenzione sanitaria), Alberto Zoli (rapresentante della Conferenza delle Regioni) e un responsabile dell’Usmaf (Ufficio di sanità marittima, aerea e di frontiera). Secondo le indiscrezioni riportate nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), il 20 febbraio la bozza del piano pandemico finisce nelle mani del ministro della Salute Roberto Speranza. Il documento prevede azioni da mettere in atto nel caso in cui fosse scoppiata un’epidemia di coronavirus in Italia, quando ancora il Belpaese è certo di poter controllare il contagio. Dopo aver avuto il via libera di Speranza, il documento finisce sulle scrivanie di tutti i componenti del Cts. È il primo marzo. Subito dopo ottiene l’ok definitivo anche dal Comitato tecnico scientifico. Speranza a quella riunione partecipa all’inizio, ma poi se ne va. Secondo quanto risulta al Giornale.it, infatti, quando il Cts approva qualche documento il ministro non è mai presente. E comunque aveva già avuto modo di vederlo 10 giorni prima.

Già nei primi giorni di marzo appare chiaro che il virus, almeno nel Nord Italia, è del tutto fuori controllo. Il piano pandemico è il punto di riferimento a cui guardare per cercare di capire come gestire l’epidemia. Ne viene fatto ampio uso per orientare le scelte. Nessuno all’interno del Cts sente infatti il bisogno di produrre altri documenti simili. Le proiezioni e gli scenari strategici bastano a Conte per capire che deve correre se vuole fermare il numero dei contagi. Sono i giorni in cui la Regione Lombardia inizia a chiedere a gran voce di estendere la “zona rossa” in Val Seriana. Sono i giorni in cui i grafici che arrivano a Palazzo Chigi parlano di virus fuori controllo nelle province di Brescia e Cremona. E sono anche i giorni in cui l’epidemia valica il Po e dilaga in Emilia Romagna. I dati sono allarmanti ovunque. Eppure quel piano rimane segreto. Non viene mostrato a nessuno, neppure alle Regioni. È vero che la segretezza – apprende ilGiornale.it – era connaturata a tutti i lavori prodotti dal Comitato, ma nel caso del Piano pandemico a questo vincolo viene dato particolare risalto: non solo più volte il Cts mette a verbale l’obbligo di non portarlo all’esterno per evitare “che i numeri arrivino alla stampa”, ma in questo caso viene applicato un livello di riservatezza rinforzato. Segreto che verrà rotto non appena il gruppo verrà allargato a 26 persone. Finché si trattava di mettere a tacere sette persone, era semplice. Poi però quel cordone si è rotto. La sua esistenza oggi è nota. Ma nonostante siano passati otto mesi non è stato ancora reso ufficialmente pubblico.