Ecco quando torna il Covid: così colpisce due volte

 

La buona notizia è che non ci si può reinfettare subito e, soprattutto, non si è contagiosi se si dovesse “tornare” ad essere positivi al Covid-19 appena guariti dall’infezione. Sì, perché è accaduto più volte che in molti pazienti ex positivi, dopo la guarigione, si siano trovate ancora tracce del virus, ma c’è una spiegazione.

Persistenza contro reinfezione
La premessa può sembrare strana ma va fatta per due ragioni: sia perché ci sono stati numerosissimi casi di persone “nuovamente” positive al Covid-19, sia per capire se l’organismo di chi ha avuto il virus riesce a “tenere” prima di avere un vaccino in grado di fermarlo.

Intanto, bisogna premettere che gli scienziati usano tre categorie generali per definire la persistenza: nelle infezioni virali acute, come il norovirus che agita lo stomaco, le persone sviluppano rapidamente i sintomi e poi guariscono completamente in pochi giorni; in malattie come la varicella, causata dal virus zoster, i minuscoli invasori restano in giro per sempre diventando latenti nei neuroni dei pazienti che li hanno contratti; altri ancora, come il poliovirus responsabile della poliomelite, sono acuti nella maggior parte delle persone ma persistenti in altri che hanno difficoltà a liberare il virus dal proprio corpo.

I casi di “reinfezione”. I Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie della Corea del Sud (Kcdc) hanno pubblicato uno studio su 285 pazienti guariti dal Covid-19 e risultati nuovamente positivi ai test dopo giorni o settimane dalla loro guarigione. Un rapporto di fine maggio ha dimostrato come quei campioni di pazienti “reinfettati”, in realtà, non avevano più un virus infettivo. I test diagnostici hanno rilevato il materiale genetico del virus che ormai era diventato innocuo o del tutto morto. Secondo i ricercatori, la mancanza di particelle virali infettive significa che queste persone non sono più attualmente infette e non possono trasmettere il Coronavirus ad altri. Quindi, gente appena guarita, fino a prova contraria, non può contrarre il virus subito, un’altra volta. Non accade. Se fosse riscontrata “nuova” positività, in realtà sarebbe la “vecchia” positività rimasta latente e non scomparsa, ancora, del tutto. “È una buona notizia”, ​​afferma Angela Rasmussen, una virologa della Columbia University. “Sembra che le persone non vengano reinfettate e questo virus non si sta riattivando”.

I casi in Italia. Negli ultimi mesi in numerosi Paesi, compresa l’Italia, sono stati segnalati casi di pazienti guariti da Covid-19 e risultati positivi a settimane di distanza. L’Istituto Superiore di Sanità ci dice che nella maggior parte dei casi queste persone avrebbero mantenuto alcune tracce del virus, in una forma comunque non attiva ma rilevati dai test. Sul nostro giornale abbiamo trattato il caso della prima recidiva in Italia di una paziente, milanese ma di origini cinesi, alla quale le è stato diagnosticato nuovamente il Covid dopo essere guarita o come la modella di 23 anni di origine rumena e residente a Bologna che è rimasta positiva dopo 56 giorni dall’infezione e 6 tamponi.

Ecco il perché. “Di solito, quando le persone guariscono da infezioni virali acute, la loro risposta immunitaria uccide le cellule colpite per eliminare il virus”, ha affermato Diane Griffin , virologa presso la John Hopkins Bloomberg School of Public Health secondo quanto riportato da NationalGeographic. Ma quando i virus infettano le cellule di lunga durata, come i neuroni, il sistema immunitario non può permettersi di distruggerle. Ciò significa che “in realtà non ti sbarazzi di tutto il genoma del virus”, afferma la ricercatrice, mentre il il virus potrebbe nascondersi in alcune parti del corpo per lunghi periodi.

Immunità a lungo termine. Anche se ancora non ci sono evidenze scientifiche, la persistenza del virus potrebbe essere effettivamente la chiave per rimanere immunizzati a lungo termine. Secondo quanto affermato dalla Griffin, anche quando il virus non si diffonde abbondantemente e se le sue proteine ​​sono ancora prodotte in un piccolo numero di cellule, i suoi frammenti potrebbero costringere il nostro organismo a mantenere una risposta immunitaria, impedendoci di ammalarci nuovamente. Questo accade, ad esempio, nel caso del morbillo, che produce immunità per tutta la vita. Negli studi sulle scimmie, la ricercatrice ha trovato l’Rna virale nelle cellule del sistema immunitario anche sei mesi dopo un evidente recupero. Il virus, quindi, potrebbe durare ancora di più nelle cellule umane, dice. Secondo la ricercatrice, nei casi di Rna persistente può accadere lo stesso effetto. I casi delle persone nuovamente positive, come si legge sulla ricerca coreana, fanno riflettere sul fatto che sia necessario prestare attenzione soprattutto nelle popolazioni di pazienti vulnerabili anche dopo aver superato l’infezione. Sarebbe molto importante un attento monitoraggio ambulatoriale.

Quanto “dura” il virus
La persistenza del Covid-19 è fondamentale per capire quanto tempo una persona è contagiosa, per quanto tempo i pazienti devono rimanere in isolamento e, collegato a quanto detto prima, se e quando sia possibile essere reinfettati. “Persistenza è una parola difficile”, ha affermato Mary Kearney , una scienziata che studia la resistenza ai farmaci contro l’Hiv presso il Centro per la ricerca sul cancro del National Cancer Institute, in Maryland. È particolarmente complicato perché, ancora oggi, gli scienziati non sanno come la persistenza del Coronavirus possa variare a seconda dell’individuo o persino dell’organo.

Come è fatto il Corona. Il Coronavirus ha un genoma fatto di Rna piuttosto che di Dna, dice Kearney. In altre famiglie di virus Rna, come l’epatite C, infezioni persistenti possono portare a malattie del fegato o cancro anche decenni dopo l’infezione originale. “Dove c’è persistenza a lungo termine, ci possono essere conseguenze a lungo termine”, afferma. Quindi, sebbene questi risultati non siano ancora evidenti per il Covid-19 vista la sua recentissima apparizione sulla Terra, gli scienziati ne stanno studiando gli effetti a lungo termine.

Il ruolo del Pcr. Molti dei test utilizzati dai medici che tracciano i pazienti, o dai ricercatori che lavano gli interruttori della luce dell’ospedale, usano il metodo della reazione a catena della polimerasi (PCR). Questo test cerca frammenti genetici del virus che vengono espulsi dal respiro di una persona o campionati nelle feci, nelle urine o in altre secrezioni. Un test Pcr può dire se qualcuno ha recentemente preso la malattia, ma non può distinguere tra il virus replicante vivo e i detriti virali non infettivi. Quindi, con questo test, non si è in grado di capire se il virus è ancora vivo e vegeto oppure morto.

Difficile “coltivare” il Covid. Per verificare la presenza di virus vivi, i ricercatori dovrebbero coltivarli da campioni in boccette di colture cellulari o piastre di Petri: si tratta di un recipiente piatto di vetro o plastica, solitamente di forma cilindrica e molto usato soprattutto il biologia per la crescita di colture cellulari e perché permette di osservare ad occhio nudo le colonie batteriche. Ma non è un’operazione facile perché i tamponi nasali possono seccarsi troppo o mancare di afferrare una cellula infetta. In altri casi, il campione potrebbe non contenere abbastanza particelle virali per la crescita dei semi. Inoltre, i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie consigliano di isolare e studiare il virus Sars-Cov-2 soltanto in laboratori sicuri con un livello di biosicurezza pari o superiore a 3.

La durata del virus. Alcuni studi effettuati in Germania dicono che i virus vivi potevano essere coltivati da tamponi alla gola fino ad otto giorni dopo l’inizio dei sintomi e si è scoperto che le persone emettono elevate quantità di Rna virale durante i primi giorni dell’infezione. Un altro studio pubblicato su Nature, una delle più importanti ed antiche riviste scientifiche esistenti, ha trattato il virus isolato da nove pazienti Covid durante la prima settimana di sintomi: uno di loro aveva il virus che poteva essere coltivato dopo nove giorni ed hanno trovato frammenti di Rna virale in più campioni dopo 31 giorni. Quali sono le differenze? Nel primo caso, il virus era vivo e vegeto e presumibilmente il paziente avrebbe potuto ancora diffonderlo; dopo 31 giorni, invece, i frammenti di Rna stanno a significare che l’organismo ha ancora tracce del virus ma non tali da essere contagiosi per il prossimo. Infatti, un altro studio effettuato su 89 residenti in case di cura e pubblicato poche settimane fa sul New England Journal of Medicine, ha scoperto che i pazienti possono eliminare il “virus vivo” al massimo nove giorni dopo.

Un altro studio su Nature ha isolato il virus vivo da nove pazienti COVID-19 durante la prima settimana di sintomi. Uno aveva un virus che poteva ancora essere coltivato dopo nove giorni; i ricercatori hanno anche trovato frammenti di RNA virale in più campioni dopo 31 giorni. Un terzo studio su 89 residenti in case di cura, pubblicato il 28 maggio sul New England Journal of Medicine, ha anche scoperto che i pazienti possono eliminare il virus vivo al massimo nove giorni dopo aver contratto l’infezione. Questo ci porta a pensare che, nonostante tanti casi positivi anche uno o due mesi dopo aver contratto Covid, nelle situazioni più lievi in cui non è necessario ricorrere alle cure ospedaliere, il virus perde nettamente potenza diventando via via più “innocuo” dopo 9-10 giorni dal suo ingresso nell’organismo. In attesa di una cura definitiva, non è tanto ma è già qualcosa.

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