Dovevano operarlo al femore, gli amputano la gamba: finisce in tribunale l’ennesimo caso di incuria e malasanità

Erika Chilelli per “il Messaggero”

«Avevo il piede freddo, ma mi dissero che il motivo erano gli spifferi che entravano dalla finestra». Eugenio Vatta è stato costretto a farsi amputare una gamba, andata in cancrena, dopo aver subito 21 giorni prima un’operazione al femore presso l’ospedale Sant’ Eugenio, per essere caduto dalla sua mountain-bike. Ora sono imputati davanti al Tribunale di Roma 9 medici della struttura, con l’accusa di lesioni personali gravissime.

IL RICOVERO

L’11 aprile del 2015 Vatta, all’epoca 49enne, si trova in viale dell’Oceano Atlantico, in zona Eur. È fermo a un semaforo a bordo della sua bicicletta quando, improvvisamente, cade sbattendo l’anca contro un tombino. Portato al pronto soccorso del Sant’ Eugenio, gli viene diagnosticata la rottura del collo del femore e viene operato il 15 aprile.

Un intervento di routine che, però, non va come dovrebbe. Nei giorni successivi Vatta comincia a stare male: giramenti di testa, difficoltà respiratorie, dolori che non gli permettono di stare in piedi. Si rivolge ai medici e viene eseguita una tac che rileva una piccola lesione al fegato, di cui però non sarebbe stato informato. Controllo, alla fine del quale, i medici lo avrebbero deriso: «Ti abbiamo fatto il tagliando di controllo gratis».

Passano i giorni, ma la sofferenza non diminuisce. È soprattutto il piede a provocare il dolore.

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Allarmato, fa presente la situazione chi è di turno, ma nessuno esegue un controllo. «Ero considerato come un rompiscatole, un esagerato», ha raccontato la vittima davanti al giudice, nell’udienza del 25 maggio scorso. Viene sollecitato anche l’intervento di un ortopedico, che avrebbe tagliato corto dicendo: «Il dolore è per l’ematoma che sta scendendo». Gli vengono fatte le analisi e risulta un’alterazione dei valori di coagulazione e una riduzione delle piastrine.

Sul piede compaiono delle marezzature, ma nessuno sarebbe intervenuto. La moglie tenta di parlare con il medico che ha eseguito l’operazione. Quest’ ultimo le mostra la lastra di suo marito dicendole: «Ho fatto quello che dovevo fare». Allora si rivolge a un’altra dottoressa del Sant’ Eugenio sua amica, chiedendole di intercedere. Ma quest’ ultima sarebbe entrata nella stanza urlando: «Ancora con questo piede!».

LA CURA A BASE DI NOCI 

Il 26 aprile le condizioni cliniche di Eugenio si aggravano e viene portato in chirurgia di urgenza. «Per noi puoi andare a casa, non c’è problema», avrebbero detto tre medici, stando al racconto di Vatta in aula. La moglie, nella sua testimonianza, ha aggiunto: «Mi hanno detto che doveva cambiare dieta: gli porti delle noci».

Finalmente, il 28 aprile, la signora Lucia riesce a parlare con un chirurgo vascolare che visita il marito e riconosce la necessità di fare due interventi di rivascolarizzazione per tentare di salvare il piede e la gamba. Operazioni, però, che non hanno l’effetto sperato perché effettuate troppo tardi. Vatta esce dal Sant’ Eugenio il 2 maggio e si reca in una seconda struttura dove subisce l’amputazione dell’arto destro e uno shock settico.

In seguito ha sviluppato una patologia invalidante, il morbo di Addison, che non permette alle ghiandole surrenali di funzionare. Per questo dovrà effettuare una cura di cortisone per tutta la vita. «Ho sognato il suicidio e la mia morte – ha confessato nella sua testimonianza – ero sicuro di non farcela». Nella prossima udienza, fissata il 5 dicembre, verranno sentiti i medici imputati.