Coronavirus, Massimo Bassetti: “Epidemia ingigantita. Morti per complicazioni respiratorie nel 2020? Simili al 2018”

 

«È successo tutto talmente rapidamente che neppure me ne rendo conto. Vedo che in strada la gente mi riconosce, e può far piacere, ma l’altro giorno a mia moglie confidavo che, se potessi, vorrei tanto tornare indietro. La notorietà è bella solo quando la gente ti stima, perché le critiche invece fanno molto male, sia quando arrivano dall’opinione pubblica sia se te le fanno i politici. Ho dedicato gli ultimi otto mesi della mia vita ai malati e agli italiani, sacrificando il mio tempo, la mia famiglia, lo stare dietro a mia madre che sta molto male, per poi sentirmi dare del negazionista da persone che non saprebbero neppure fare un’iniezione. L’Italia è una terra di invidiosi e di talebani: se qualcuno non è d’accordo con te, anziché ascoltarti ti dà del fascista. Un approccio poco scientifico. Negli ultimi giorni poi da una certa parte dell’opinione pubblica e della politica ho ricevuto attacchi indegni per un Paese civile e democratico perché ho avuto alcuni ruoli da Roma».

Parole e musica di Matteo Bassetti, direttore della Clinica Malattie Infettive dell’Ospedale San Martino di Genova, presidente della Società Italiana di Terapia Antinfettiva nonché fenomeno medico-mediatico della collezione primavera-estate-autunno-inverno 2020, anno bisesto e funesto. Il camice bianco del Covid più telegenico d’Italia e dal linguaggio semplice e chiaro, quasi avesse fatto un corso intensivo di comunicazione prima della pandemia, si è infilato in un tunnel fatto di corridoi ospedalieri, sale di rianimazione e telecamere che lo inseguono ovunque e vive in una dimensione parallela, con il virus al fianco e nella testa 24 ore su 24, al tempo stesso un nemico, una sfida, un rebus, un lavoro, una missione. Ma non un incubo, perché il segreto è non farsi terrorizzare. È questa la principale «Lezione da non dimenticare» dell’epidemia, come il professore ha voluto titolare il suo libro su questi mesi, che uscirà giovedì 12 novembre, scritto con la giornalista Martina Maltagliati per Cairo Editore

Rimpiangere l’anonimato e poi scrive un libro: gli atti non fanno a cazzotti con le intenzioni?

«Non ci trovo nulla di male, anzi. Questo non è il mio primo libro. Ci ho lavorato in estate. Ho ritenuto importante raccontare alla gente dalla prima linea quel che è davvero successo la scorsa primavera».

È chiaro che adesso la attaccheranno ancora di più: non lo teme?

«Ormai mi attaccano anche se metto i calzini blu, per dirmi che sarebbe stato più consono portarli neri. Insultarmi e denigrarmi è diventato uno sport nazionale».

E come mai?

«Perché non sono allineato al pensiero unico dominante. E in Italia, se la pensi un po’ diversamente da come sta bene, diventi un nemico».

Si sarà chiesto il perché «Perché in Italia si fa un uso politico di tutto.

«il Covid è diventato una via di mezzo tra politica e medicina».

Qual è la lezione da non dimenticare del virus?

«Che non bisogna farsi trovare impreparati. Servono più medici, più infermieri e un piano anti-pandemico che consenta di curare a casa i malati non gravissimi e di aumentare rapidamente i posti letto in ospedale».

Allora noi la lezione non l’abbiamo imparata

«Certe cose le abbiamo imparate, come lavorare in squadra tra eccellenze delle diverse specialità; oppure a non trascurare le altre malattie. Durante i tre mesi primaverili dedicati solo alla cura del Covid abbiamo sbagliato, abbiamo dimenticato le altre patologie, con il risultato di un aumento della mortalità per infarto, ictus, tumori, problemi cardiaci. Oggi affrontiamo la seconda ondata senza perdere di vista gli altri malati».

Medici e infermieri però sembrano propensi a gesti di eroismo e abnegazione

«Dopo nove mesi sulla breccia e tante promesse dal governo non mantenute, sta subentrando un po’ di stanchezza e qualche collega di altre specialità si mette più difficilmente al servizio. Ma nel complesso non si può dire che i medici si stiano tirando indietro; semplicemente, difendono anche i loro malati, e questo è un bene».

Però diciamolo, alla seconda ondata non ci siamo preparati

«Non è il momento delle accuse. Certo, questa estate si poteva fare di più, ci si poteva preparare meglio. Il Paese si è un po’ seduto sui risultati della prima chiusura».

Il Paese o il governo?

«Questa è una domanda da fare a un politico, quindi non a me».

Abbiamo perso tempo?

«Sì, ma la colpa non è del governo o delle Regioni. È il sistema Italia che non aiuta, la burocrazia porta alla paralisi: prima di comprare un ventilatore devi analizzare quattro preventivi, poi indire una gara, approvarla, verificare i risultati. Siamo perdenti per la lentezza del nostro sistema».

Abbiamo un commissario straordinario del governo al Covid, Arcuri, e siamo in stato d’emergenza da inizio anno: questo non dovrebbe velocizzare la macchina?

«Anche questa sarebbe una risposta da politico; quindi non mia».

Sa di essere uno degli infettivologi preferiti da Salvini?

«Gli elogi fanno piacere, però io non ho etichette, non mi interessa al politica. Io lavoro per l’Università di Genova e il Sistema Sanitario Nazionale».

Salvini la vorrebbe nel Comitato Tecnico Scientifico

«Ne sono lusingato ma sto bene dove sto».

Il viceministro Sileri, che è medico, sostiene che il Cts andrebbe allargato ad altri camici bianchi…

«Il Cts ha fatto cose ottime e cose meno buone. La sua composizione sarebbe stata da rivedere forse prima dell’esplosione della seconda ondata. Ha grandi professionisti, ma certo è un po’ romanocentrico, e pertanto è composto da colleghi che non hanno combattuto il Covid sul campo a marzo e aprile. Forse innestare qualche medico ligure, lombardo, piemontese, emiliano o veneto sarebbe stata una buona idea».

Si candida a quinta colonna nordista nel Cts?

«No guardi, io sono apolitico. Salvini mi apprezza ma è stata Agenas, poco fa, a nominarmi coordinatore scientifico di un gruppo di lavoro per la gestione del Covid in tutta Italia».

Meriti televisivi o è grazie a Sileri, che a fine mandato andrà a lavorare da Zangrillo, al San Raffaele di Milano?

«Lei è un provocatore, ma non ci casco. Io ho fatto il mio lavoro di medico in corsia con il mio gruppo e mi danno del negazionista. Sarebbe come dare dell’ateo a un monsignore. Mi creda, la politica è nemica della medicina, si è visto prima del Covid e durante».

Questa me la spieghi meglio

«Sono stati trent’ anni di politica scellerata e di tagli selvaggi che hanno spogliato i nostri ospedali, la ricerca e le università. Noi medici ci stiamo caricando sulle spalle tutto il sistema e chi ci critica non si merita il livello di sanità che noi riusciamo ancora a garantire. Anche sul Covid, l’Italia quanto a pubblicazioni scientifiche è seconda probabilmente solo agli Stati Uniti, che hanno ben altre risorse».

E in che modo la politica è stata nemica della medicina?

«La comunicazione è stata sbagliata. Terrorizzare le persone può aiutare a farle stare in casa, ma a livello ospedaliero gestire una popolazione nel panico genera solo caos. Se oggi le strutture sanitarie rischiano il collasso è anche perché sono assediate da migliaia di persone asintomatiche o poco sintomatiche che si potrebbero tranquillamente curare a casa che invece prendono d’assalto i pronto soccorso, intasano i centralini degli ospedali, fanno perdere tempo ai medici. E tutto avviene perché sono state spaventate dalle istituzioni, che avrebbero invece dovuto tranquillizzarle. Il Covid è stato ingigantito: è il panico e la paura di finire intubato o di morire che fa esplodere il sistema sanitario, non i malati. Se ricevo cento telefonate al giorno da chi non sta male, come curo i malati veri?».

Cosa ci avrebbero dovuto dire?

«Andava detto che il Corona sta facendo danni enormi ma che la maggioranza dei positivi è asintomatica o poco sintomatica e che il virus ha una letalità inferiore all’1% e fa male soprattutto a pazienti anziani e con la salute già compromessa».

Poi però capita il cinquantacinquenne intubato, e che magari muore anche…

“Perché è una brutta infezione e concorrono tanti fattori: la genetica, le condizioni di salute, lo stato delle difese immunitarie nel momento del contagio, la carica virale introiettata. Ma già prima della comparsa del Covid, la polmonite contratta fuori dall’ospedale era la quinta causa di morte nel mondo, e uccideva anche cinquantenni e bambini».

La accusano di aver detto in estate che non ci sarebbe stata una seconda ondata: perché lo ha fatto?

«Non l’ho mai detto. Sono stato il primo a dire che bisognava convivere con il virus. Il che significava che avremmo avuto ancora tanti casi».

Davvero?

«Ho detto che non sarebbe stata come la seconda ondata della “Spagnola”, con milioni di morti, perché abbiamo imparato a fronteggiarla. Chi mi accusa di aver negato la seconda ondata fa politica. Ma poi, parliamoci chiaro, è sbagliato parlare di ondate».

Perché c’è un’unica ondata?

«Il Covid ha il tipico andamento epidemico dell’influenza. Circola in autunno e inverno più che in estate».

E uccide di più…

«Uccide cinque-sei volte di più. Ma quello che deve spaventare non sono tanto i morti, perché vedrà che alla fine del 2020, su base nazionale, i numeri dei decessi per complicazioni respiratorie saranno simili a quelli del 2018. Bisogna guardare alla morbilità del virus, ovverosia quanta gente è malata ora: è il numero dei contagiati, non la loro gravità che può mandare in tilt gli ospedali».

Per questo chiudiamo tutto, per evitare il collasso?

«Esattamente. L’ultimo decreto del governo nella sua filosofia è corretto, anche se forse si sarebbe potuto evitare agendo meglio prima».

Continuare a cambiare regole non crea troppa confusione?

«Se cambi ogni settimana significa che non sei convinto di quanto hai deciso. Ma c’è un’attenuante: questa infezione è molto dinamica e la conosciamo ancora poco».

E quando se ne andrà?

«Se le dicessi che dovremmo conviverci per anni?».

Mi dispererei

«E sbaglierebbe. Bisogna imparare a vivere con il Covid, gestirlo, creare reparti specializzati, e medici pronti, tracciare bene il territorio: si tratta di un’infezione virale brutta ma come ne abbiamo avute altre in passato».

Perché spaventa così tanto?

«Perché è arrivata all’improvviso, come uno tsunami. Alcuni testimoni dello tsunami non sono più tornati in mare. E poi perché ci è stata raccontata male: i media fanno vedere solo la parte negativa, i camion con le bare, gli intubati, e così trattiamo qualsiasi positivo come uno appena uscito dal reattore nucleaer di Chernobyl. Diamo il bollettino di guariti e dimessi, non solo di positivi, ricoverati e morti. Guardiamo anche il bicchiere mezzo pieno».

Se la gente si rilassa però, il contagio riesplode

«Non se si dà un’informazione capillare sui focolai. Molto terrore e molti contagi sono generati dalla poca chiarezza».

Crede che il vaccino ci salverà?

«Ci aiuterà, ma non farà sparire il Covid. C’è anche il vaccino per l’influenza, ma non l’ha debellata. Comunque bisognerà attendere almeno sei mesi per avere numeri significativi sulla profilassi».

E il farmaco miracoloso tratto dal siero dei guariti?

«Si annuncia portentoso e può cambiare la storia, ma anche per lui dobbiamo attendere la primavera».

 

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