“Chi ha fatto il vaccino per l’influenza resiste di più al coronavirus”

Lo spettro del coronavirus si aggira per il mondo. E la comunità scientifica lavora e studia per fermarlo. Quella in atto è una guerra. Per una cura soddisfacente ci vuole del tempo.

Tutti dicono che ci vorranno forse anche tre anni, ma non è detto. Possono arrivare tardi i vaccini, come nel caso dell’Ebola. Ma qui siamo avvantaggiati dalla Sars e ci sono persone che il farmaco vincente ce lo hanno già in mano. Adesso si tratta di far le prove sui topi, sui volontari e poi di avere l’autorizzazione per metterlo in commercio. Ma la cosa è così drammatica che probabilmente tutte queste procedure verranno accelerate. Non possono esserne sicuri, ma se c’è una volta in cui la ricerca scientifica può far vedere di riuscire a compiere un miracolo, beh è questa.

“Il vaccino potrebbe esserci per la fine dell’anno. Anche se la maggior parte dei medici diranno che tecnicamente non è possibile. La mia è la previsione più ottimistica”. A parlare è il professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano. Lo fa dalle colonne de Il Tempo. Il professore spiega che il vaccino per l’influenza stagionale non risolve, ma aiuta. E questa è una cosa importante da sapere. Qualche dato suggerisce che forse conferisce qualche protezione. Non è la protezione totale che conferirà quello per il coronavirus, quando sarà fatto, quello proteggerà davvero.

Questo potrebbe favorire l’instaurarsi di una malattia meno grave. I ricercatori del Mario Negri lo stanno studiando. È una collaborazione con il Policlinico di Milano oltre che altri ospedali, quello di Bergamo e altri. “Noi andremo a vedere com’è l’evoluzione clinica di chi ha fatto la vaccinazione per l’influenza e di chi non l’ha fatta. Alla fine di questo studio potremo rispondere definitivamente a questa domanda”. Poi il professore si concentra su chi in queste settimane è in prima linea.

“I medici e gli infermieri sono gli eroi del nostro tempo moderno”, spiega. Non lottano più con le armi, ma combattono contro qualcosa che noi non conosciamo bene e non sappiamo quando ci colpirà. Il che rende tutto più difficile. “La medicina e la ricerca non devono essere dimenticate perché sono il pilastro su cui si fonda il benessere delle persone. Dobbiamo ripensare tutto, il Pil è importante ma se non abbiamo la salute il resto non conta nulla”. Con questi virus dovremo faremo i conti anche negli anni a venire e se saremo preparati vinceremo noi perché siamo più intelligenti. Per farlo dobbiamo rafforzare il nostro sistema sanitario pubblico che non vuol dire solo più medici e infermieri. Vuol dire più cultura, più formazione, meno diseguaglianze da nord a sud, uno sforzo globale per governare il sistema.

“E per una cura, a che punto siamo?”, chiede il giornalista. “Ci sono tante strade. Questo virus si lega agli alveoli dei polmoni, poi c’è una reazione immunologica del soggetto molto forte che vorrebbe battere il virus. Ed è la reazione immunologica che crea un processo infiammatorio negli alveoli del polmone portando a una situazione di fibrosi, cioè di consolidamento del tessuto”. Però i medici questa reazione infiammatoria un pochino la conoscono perché assomiglia in un certo senso a quella nei pazienti con tumori o leucemie. Un farmaco che potrebbe funzionare è il Tocilizumab.

È stata già avviata una sperimentazione su 50 pazienti a Napoli. Altri stanno facendo altre cose. C’è un grande sforzo in questo momento dell’Europa a cui, per l’Italia, partecipa Dompé. “Loro stanno scrinando milioni di molecole. Si scrina tutto quello che c’è in vitro, sperando di trovare qualcosa che funzioni”. “Succederà?” “È possibile perché quello lì è un altro approccio. Poi ci sono tantissime altre cose che stiamo cercando di fare. C’è adesso il remdesivir che interrompe la catena di replicazione del virus e questo è promettente. Sulle cure sono più ottimista”.

Si arriverà prima o poi a una soluzione del problema, ma per ora la questione più emergenziale è rappresentata dalla necessità di più posti letto in terapia intensiva. Servono investimenti. Servono respiratori. “Potremmo arrivare ad avere bisogno di 4mila posti in più di terapia intensiva, tra quattro settimane”. E non è una cosa facile da realizzare.