Bergamo ferita e abbandonata: “Avevamo paura, ora tanta rabbia”

Bisogna vederla la Val Seriana per capire cosa è successo. A salir su, da Bergamo città, sono una sfilza di paesini, uno attaccato all’altro, quasi a non distinguere in confini. Qui vivono oltre ottantamila persone. Qui è divampato uno dei focolai più terribili d’Italia.

“In questo periodo chiaramente i ragionamenti si fanno sui dati ufficiali – ci racconta una insegnante della zona – ma la situazione, qui a Bergamo, è stata molto peggiore di quei numeri”. A Nembro e ad Alzano Lombardo, come in tutti i paesi della Val Seriana, a parte gli ospedalizzati, moltissime famiglie erano chiuse in casa a lottare per la vita. “Anche se non ci hanno colpiti direttamente, sentiamo il peso di tutti quei lutti e, purtroppo, ora che la situazione sta lentamente migliorando e la mente è più lucida, iniziano a emergere grandi domande su come è stata combattuta questa emergenza”.

Ieri, a dieci giorni dalla riapertura, i pazienti Covid nelle terapie intensive delle Asst Bergamo Est e Bergamo Ovest si sono azzerati. Il peggio sembra passato. Nei giorni di picco i malati ricoverati erano circa duecento. “Abbiamo vissuto giorni tremendi a contare i morti nei nostri quartieri – racconta ancora l’insengnate – a vedere ambulanze e feretri presentarsi sotto casa e per chi dei nostri condomini fossero venuti…”. A molti, per esempio, non è ancora del tutto chiaro perché, in piena emergenza, il sindaco Giorgio Gori invitava i suoi concittadini a condurre una vita normale. O perché, nononstante i contagi continuassero ad aumentare, nessuno a Roma si decideva a chiudere gli impianti sciistici. Negli occhi dei bergamaschi sono ancora vivide quelle fotografie che immortalano le loro montagne, affollate di sciatori sotto il sole primaverile, nello stesso fine settimana in cui il governo disponeva ulteriori restrizioni per evitare che il contagio dilagasse. Sono stati anche questi atteggiamenti sconsiderati a portare il virus pure nelle altre valli, la Val Brembana e la Val di Scalve. “Prima avevamo tutti paura, adesso abbiamo tanta rabbia – ci spiega l’insegnante – bisogna andare a fondo di questa vicenda: sicuramente non cambierà il nostro dolore né servirà a cercare un qualche responsabile da mettere in croce, ma abbiamo il diritto di sapere come è potuta accadere questa strage”.

I numeri, appunto, sono quelli di una strage. Il mese scorso L’Eco di Bergamo ha condotto un’indagine tra i Comuni bergamaschi per cercare di svelare il numero esatto delle persone morte nel solo mese di marzo: “Sono 5.700, di cui 4.800 riconducibili al coronavirus. Quasi sei volte in più di un anno fa. I numeri ufficiali, invece, dicono che al 31 marzo erano 2.060 i decessi certificati positivi al Covid 19”. Un’ecatombe, insomma. Nelle ultimi mesi in molti si sono concentrati sull’ospedale di Alzano Lombardo e hanno puntato il dito contro la Confindustria locale accusandola di aver fatto pressioni sul governo perché non facesse la “zona rossa” in Val Seriana. In realtà, gli imprenditori hanno fatto gli imprenditori. I politici, invece, non hanno fatto i politici. E, in un rimpallo di responsabilità, l’esecutivo ha perso tempo fino all’8 marzo, quando tutta la Lombardia è divenuta zona rossa. Troppo tardi per evitare questa strage.

Bergamo, Milano, Roma. È su questa direttiva che si è giocata la drammatica partita bergamasca. “Ricordo quei momenti, ricordo una situazione comprensibilmente discussa. Maneggiavamo tutti delle incertezze: noi tecnici stavamo dando un consiglio che non avremmo mai voluto dare e chi ci governa doveva prendere decisioni che non avrebbe mai voluto prendere”, racconta una fonte della task force di Regione Lombardia. Chi doveva agire, però, alla fine non lo si è mosso. “Se fossimo stati più convincenti, forse avremmo guadagnato anche solo tre o quattro giorni nella decisione del governo e avremmo limitato i danni”.

Mentre in molti cercavano il capro espiatorio, non ci si è accorti veramente del dramma vissuto dai bergamaschi. È, per esempio, passato sotto traccia il lavoro incessante, non sufficiente e, probabilmente, nemmeno adeguatamente protetto delle pompe funebri. Alcune persone hanno dovuto attendere fino a quattro giorni prima di veder arrivare qualcuno a ritirare la salma. Nel frattempo, a Seriate come a Bergamo, i preti accoglievano le bare in chiesa per un’ultima benedizione prima che i camion dell’esercito le portassero nei forni crematori fuori dalla regione. Chi ha vissuto il dramma di quei giorni ci racconta anche di quanto fossero poche le bombole di ossigeno a disposizione: “Ad un certo punto questo ha portato alcune persone a telefonare alle famiglie dei defunti per sapere se per caso gli era avanzata mezza bombola”.

In questi mesi di buio, però, i bergamaschi hanno potuto contare sul lavoro di medici e infermieri che non solo hanno lottato con tutte le proprie forze per salvare quante più vite possibile ma, con estre umanità, hanno anche permesso a chi stava rimettendo l’anima a Dio un’ultima videochiamata ai propri cari. Nessuno potrà mai dimenticare i sette giorni in cui artigiani, aplini, semplici volontari e ultrà hanno costruito l’ospedale da campo, una sorta di succursale del Papa Giovanni XXIII ormai congestionato. Una cosa resta evidente a qualunque cittadino di Bergamo. “Tutta l’Italia è stata colta impreparata dal coronavirus – ci raccontano – ma Bergamo è stata una terra abbandonata a se stessa che se l’è cavata alla bene e meglio grazie alla generosità e buona volontà di tutti”.