“Addio alla bistecca”: l’aumento choc sulla carne

Rinunciare a una bistecca per colpa della guerra in Ucraina? Presto potrebbe toccare a parecchi italiani. Perché il nostro principale fornitore di mais ((33% del totale) è proprio il Paese invaso dalle truppe russe, che è anche il settimo produttore mondiale. E il secondo fornitore (24%) è l’Ungheria, che ha bloccato le esportazioni. Così le aziende nostrane che producono mangimi si ritrovano con scorte risicate, sufficienti per appena otto settimane.

Tradotta in soldoni, questa carenza costerà ai consumatori di carne italiani un aumento del 20% sul prezzo della carne. A lanciare l’allarme è Cia-Agricoltori italiani, che come unico rimedio suggerisce l’importazione di cibo per animali da stalla da Argentina e Stati Uniti. Ma una scelta del genere comporterebbe, a causa dei maggiori costi di trasporto e logistica, nuovi aumenti sul mais che solo negli ultimi dodici mesi ha visto il proprio prezzo esattamente raddoppiato (oggi fissato a 41 euro al quintale). Allo stop delle importazioni dall’Ucraina si somma il blocco all’export deciso da Viktor Orbàn il quale, senza rispettare il principio di libera circolazione delle merci nell’Unione europea, ha dato all’Ungheria un diritto di prelazione sui beni in uscita.

Il prezzo di grano e mais mai così alto
A risentire della crisi sono tutti i settori legati all’agricoltura e all’allevamento, dalle carni bovine a quelle suine e avicole, dalle uova e dal latte ai loro derivati. Il problema, sottolinea la Confederazione degli agricoltori italiani, è di lunga data: per anni non si è fatto nulla per stimolare e aumentare la semina di granturco sul territorio nazionale, così che ad aumentare sono state solo le importazioni. Una indagine dell’Osservatorio agroalimentare segnalava, lo scorso novembre, che in dieci anni la produzione nazionale è crollata di 4 milioni di tonnellate e, nel frattempo, sono raddoppiate le importazioni (per un costo pari a un miliardo di euro). In un decennio, il 40% delle superfici coltivate a mais lungo la penisola è andato perduto, 380.000 ettari in tutto. E l’Italia, come nel settore energetico, si ritrova fortemente esposta alle crisi internazionali.

Il problema è destinato a durare, perché se il raccolto di quest’anno in Ucraina andrà perduto la scarsità di mais durerà almeno fino al 2023. E anche la soluzione a stelle e striscie potrebbe rivelarsi insufficiente, sia per gli alti costi e tempi di trasporto, sia perché i mangimi prodotti negli States sono per la maggior parte Ogm e quindi non conformi al disciplinare delle Dop italiane. Indispensabile dunque, secondo la Cia, un intervento a livello continentale che garantisca un’equa ripartizione del mais, proporzionata ai singoli fabbisogni nazionali. Qualcosa a Bruxelles sembra muoversi: il commissario europeo dell’Agricoltura, Janusz Wojechowski, ha garantito che la Commissione sta prendendo in considerazione “il varo di misure volte a garantire e incrementare la capacità produttiva dell’Europa nel 2022, tra cui l’utilizzo dei terreni incolti”.