Raid israeliani su Gaza, colpita la casa di una dottoressa: uccisi 9 dei suoi 10 figli
L’orrore è sceso sulla città come una coltre di cenere, cancellando ogni residuo di speranza. Un raid aereo israeliano ha colpito una palazzina residenziale a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, radendo al suolo l’abitazione di una pediatra, simbolo di cura e dedizione, il cui lavoro era dedicato all’infanzia. L’attacco, avvenuto mentre la città sembrava assopita in una fragile tregua, ha causato una strage senza precedenti, strappando alla vita nove dei dieci figli della donna, insieme al futuro di un’intera famiglia.
La tragedia si è consumata in pochi istanti. Il marito della pediatra, anch’egli medico, era rientrato a casa dopo aver accompagnato la moglie al lavoro. Pochi minuti dopo, la furia dell’attacco ha trasformato la loro casa in un cumulo di macerie. Il decimo figlio, un bambino di undici anni, è sopravvissuto con ferite gravissime. Il padre, estratto vivo dalle macerie, è ora ricoverato, straziato dal dolore.
Le immagini strazianti delle salme carbonizzate dei bambini, estratte dalle macerie, hanno fatto il giro del mondo, provocando ondate di commozione e rabbia. Testimoni oculari riferiscono che l’edificio colpito non ospitava alcuna infrastruttura militare, ma solo famiglie. L’attacco, per la sua brutalità e per il simbolo che rappresenta, ha scosso l’intera comunità, infrangendo ogni residuo di fiducia e di sicurezza.
Un conflitto asimmetrico, una popolazione sotto assedio
L’episodio di Khan Younis mette a nudo la natura profondamente asimmetrica del conflitto in corso. Da un lato, Israele, dotato di un esercito regolare e di sistemi di difesa avanzati. Dall’altro, la popolazione palestinese, compressa in un lembo di terra dove ogni casa può diventare un bersaglio, ogni famiglia una perdita annunciata. La strategia israeliana, improntata a colpire in profondità con l’obiettivo di smantellare la rete militare di Hamas, sta provocando un numero crescente di vittime civili, ponendo il governo di Tel Aviv sotto crescente pressione internazionale.
La strage di Khan Younis, come molte altre tragedie, si somma a una lunga teoria di lutti anonimi che non trovano più spazio nei bollettini ufficiali. Ma questa volta, la perdita è stata così grande, così inimmaginabile, da diventare la fotografia definitiva di questa fase del conflitto: non più una guerra tra eserciti, ma una sistematica erosione del tessuto umano.
Un punto di rottura, un futuro incerto
Sul piano geopolitico, la strage di Khan Younis rischia di diventare un punto di rottura. I governi occidentali, pur garantendo il diritto di Israele a difendersi, faticano sempre più a giustificare episodi di questo tipo davanti all’opinione pubblica. L’isolamento diplomatico della leadership palestinese si aggrava, stretta tra il discredito internazionale di Hamas e l’impotenza dell’Autorità Nazionale Palestinese.
La comunità internazionale si trova di fronte a una frattura crescente tra le regole della guerra e la realtà sul campo. I civili non sono più “effetti collaterali”: sono bersagli. La linea tra operazione militare e punizione collettiva si fa sempre più sottile. L’orizzonte che si intravede non è quello della pace, ma quello di una vendetta infinita.
La domanda che rimane sospesa sopra le macerie di Khan Younis non riguarda più solo chi ha premuto il pulsante del drone. Ma chi ha deciso che una casa piena di bambini potesse essere un obiettivo legittimo.