Perché vediamo i morti?

Ci sono buone probabilità che voi stessi o qualcuno di vostra conoscenza abbia avvertito la presenza di un morto. Non alla maniera del Sesto Senso di Shyamalan, ma come la vivida percezione – visiva o anche tattile – che nelle nostre vicinanze sia presente qualcuno che sappiamo essere defunto. Nella maggioranza dei casi, una persona cara morta da relativamente poco.

Che siano o meno allucinazioni, una sola cosa è certa: pochi tra coloro i quali hanno vissuto esperienze di questo tipo decidono poi di parlarne. E la ragione, ovviamente, è che nella nostra società secolare non c’è spazio per i fantasmi. Si tratta necessariamente di allucinazioni causate dal dolore o dalla stanchezza. Allucinazioni che, tra l’altro, ci impediscono di “guardare avanti” e lasciarci alle spalle i traumi del passato.

Saremmo insomma vittime di quella che Sigmund Freud chiamava “psicosi illusoria”. Un’allucinazione causata dal dolore del lutto, una sorta di follia momentanea che ci porta a vedere il volto, sentire la voce o il profumo della persona amata e scomparsa. Il rimedio a tutto ciò, secondo quanto sostenuto da Freud nel suo saggio del 1917 Lutto e melanconia, è di recidere i legami che ci tengono attaccati ai defunti e lasciare andare le visioni. Da allora, nessuno ha più messo in discussione questo approccio (almeno nelle società occidentali).

Stando così le cose, non stupisce che – secondo quanto riporta The Walrus – ben pochi parlano delle esperienze da loro vissute. Uno studio del 1972 effettuato negli Stati Uniti d’America rivelò come il 50% delle vedove e dei vedovi avesse percepito la presenza della persona defunta. Tre quarti di loro, però, non ne aveva fatto cenno a nessuno, per evitare di essere compatiti o trattati in maniera paternalistica.

Tra chi ha vissuto e parlato di queste esperienze c’è invece Sylvia Townsend Warner, scrittrice tradotta anche in Italia da Adelphi e firma del New Yorker, che spiegò nel 1970 come avesse avvertito la presenza della sua compagna defunta, Valentine Ackland, e di come una volta Valentine l’avesse seguita fino a letto: “Non era un ricordo, non era un’evocazione, non era avvertire la sua presenza. Era reale”. Se anche una donna di cultura, militante del Partito Comunista e sicuramente secolarizzata come Townsend Warner ha vissuto con tale forza un’esperienza del genere, come si fa a derubricarla a fantasia per superstiziosi?

Anche la nostra tradizione millenaria – che va da Gilgamesh alla serie tv River, passando per il MacBeth – fornisce un’idea di quanto la visione delle persone morte sia da sempre parte dell’umanità. E infatti qualche tentativo di indagare più a fondo la faccenda è stato fatto, almeno in passato. Sempre The Walrus racconta come il primo studio scientifico sul tema venne fatto a Londra nel 1880 da parte dei membri fondatori della Society for Psychical Research (SPR), organizzazione ancora oggi attiva.

Nel loro studio, chiesero a un campione di cittadini britannici se avessero avuto, “mentre in buona salute, privi di ansia e completamente svegli, l’impressione vivida di vedere o essere toccati da un essere umano, o di sentire una voce o un suono che suggerisse una presenza umana, anche se non c’era nessuno”. Nel 1889, lo studio venne espanso ad altre nove nazioni – Stati Uniti, Francia, Germania, Russia, Brasile e altri – sempre coinvolgendo psicologi e medici. Raccolsero in totale 17mila risposte, individuando percentuali tutto sommato simili: una quota di partecipanti tra il 7 e il 19% aveva vissuto un’esperienza di questo tipo almeno una volta nella vita.

Non solo, molti intervistati segnalarono di aver avuto una percezione di questo tipo proprio nel periodo in cui, a loro insaputa, una persona cara stava per ammalarsi gravemente o per morire. La SPR teorizzò che la mente potesse proiettare una sorta di scarica energetica telepatica che supera le nostre barriere mentali ed è raccolta poi in qualche forma di allucinazione. Poiché stiamo rapidamente scivolando nel paranormale, può essere interessante annotare come proprio un’esperienza di questo tipo abbia portato alla nascita dell’elettroencefalogramma, creato dallo scienziato tedesco Hans Berger nel 1929 per capire quale attività cerebrale potesse avergli permesso di “avvertire” il grave incidente che aveva coinvolto a sua insaputa la sorella.

Ma quelli erano anche gli anni dell’avanzata della psicologia e del tentativo di questa disciplina di affermarsi in quanto scienza. Gli studi condotti dalla SPR, anche a causa del loro successivo soffermarsi sul lavoro dei sensitivi e cose di questo tipo, vennero quindi ampiamente ignorati dal mondo scientifico. Nel giro di breve tempo, parlare di apparizione divenne un residuo del passato, una superstizione, qualcosa da non prendere minimamente sul serio.

In tutto questo, come detto, la società occidentale fece un ulteriore passo avanti, teorizzando come il modo migliore per riprendere a vivere dopo un lutto fosse smettere il prima possibile di crogiolarsi nella sofferenza, superare la perdita e proseguire nella propria vita cercando di cancellare la presenza di questi “fantasmi mentali”. È solo sul finire degli anni ’90 che questa linea di pensiero ha iniziato a essere messa in discussione. Uno psicologo come Dennis Klass, per esempio, propose un nuovo modello di elaborazione del lutto che ha chiamato “legame continuativo”, che a suo parere si accorda meglio con quella che è l’esperienza vissuta dalla maggior parte delle persone.

Non bisogna, in poche parole, dimenticare i propri defunti. Anzi lo scopo del lutto sarebbe la “costruzione di una relazione tra la persona viva e quella defunta che permetta a chi vive di integrare il morto nella sua vita”. D’altra parte, è solo la società occidentale ad aver deciso, a un certo punto, che doveva rimuovere i suoi legami coi morti e che questo metodo sarebbe stato più salutare. In Giappone, per esempio, i rituali di lasciare cibo e accendere candele come dono per i defunti sembrano rendere le persone psicologicamente più adatte ad affrontare il lutto.

Nonostante qualche piccolo cambiamento stia iniziando ad avvenire anche dalle nostre parti, la strada è ancora lunga. Lo dimostra il fatto che, nel 2005, uno studio britannico individuò come l’80% delle persone che hanno avvertito la presenza di un defunto abbia deciso di tenere tutto per sé per non essere frainteso o peggio. Esattamente come avveniva negli anni ’70. D’altra parte, a quasi 150 anni di distanza dai primi studi della SPR, nessuno ha ancora idea del perché queste esperienze siano così diffuse. Indipendentemente da cosa pensiamo di questi fenomeni, provare a vederci più chiaro non può fare del male. Anche per capire una volta per tutte cosa avvenga nel cervello di chi vive queste esperienze.