“Perché rischia di saltare”: Referendum, la notizia scuote il Pd

Il panorama politico italiano si prepara ad affrontare uno degli appuntamenti più delicati degli ultimi anni: il referendum costituzionale previsto per il 2026. Come ormai consolidato, ogni consultazione di questo tipo si rivela più di un semplice quesito tecnico, diventando un vero e proprio giudizio sul governo in carica e sulla direzione politica del Paese. In questo contesto, il voto non rappresenta solo un momento di partecipazione democratica, ma un banco di prova per le forze politiche e, in particolare, per il Partito Democratico.

Il ruolo del Referendum nel 2026: più per il PD che per il Governo Meloni

Analisti e osservatori concordano nel sottolineare che, a differenza di quanto si possa pensare, il referendum del 2026 potrebbe rappresentare un rischio più per il centrosinistra, e in particolare per il Partito Democratico, che per l’attuale esecutivo di Giorgia Meloni. La leader dem, Elly Schlein, si troverà di fronte a una scelta cruciale: schierarsi con una campagna che rischia di apparire stanca, ideologica e distante dai problemi reali degli italiani, oppure tentare una svolta strategica, rompendo con le retoriche tradizionali di una sinistra spesso percepita come difensiva e conservatrice.

Le domande interne al PD sono molteplici e di grande rilevanza: è ancora utile puntare sulla narrativa della “democrazia in pericolo”? Gli elettori credono davvero che il Paese sia sull’orlo di un ritorno al fascismo? È opportuno difendere a oltranza la magistratura, in un momento in cui cresce la percezione di una giustizia politicizzata? Risposte che potrebbero determinare il futuro del partito e il suo posizionamento nel quadro politico nazionale.

Il rischio di un copione già scritto

Se il PD dovesse confermare le proprie tendenze passate, il risultato sarebbe un ulteriore irrigidimento: un fronte progressista frammentato, con figure come Bonelli, Fratoianni e Conte che alzano la voce con toni da comizio, mentre Elly Schlein si limita a seguire, ripetendo slogan ormai logori. Questo schema ricorda le ultime mobilitazioni su temi sociali e sindacali, dove la linea è stata dettata da leader come Landini e Albanese, lasciando il partito in una posizione di mera adesione senza una proposta autonoma.

I sondaggi non lasciano spazio a molte interpretazioni: il centrosinistra fatica a superare il 40%, mentre la coalizione di centrodestra si mantiene stabile e compatta, rafforzata anche dai consensi sul fronte opposto. In questo scenario, la domanda che si pone è: il PD saprà cambiare rotta o continuerà a seguire un copione già scritto?

Una possibilità di svolta: il ruolo dei riformisti

Eppure, non tutto è perduto. All’interno del Partito Democratico esistono ancora voci che credono in una strategia riformista e pragmatica. La corrente dei cosiddetti riformisti dem ha ora l’opportunità di emergere e di proporre una linea diversa, più autonoma e coraggiosa. La tentazione di mantenere un atteggiamento di dissidenza controllata, con interventi timidi e appoggi tiepidi, rischia di essere una strategia di mera sopravvivenza, destinata a garantire pochi seggi alle prossime elezioni e a mantenere il partito in una posizione di marginalità.

Al contrario, una scelta più ambiziosa potrebbe essere quella di tornare a fare politica attiva: organizzare un comitato per il Sì, differenziarsi dalla linea ufficiale della segreteria e avviare un confronto trasparente con la base e l’opinione pubblica. Questa strada, seppur più rischiosa, potrebbe ridare al PD un’identità forte, capace di parlare a un elettorato moderato e riformista, spesso allontanato negli ultimi anni.

Un’occasione “win-win” per il partito

Per i riformisti, questa potrebbe essere una vera e propria occasione “win-win”: nel migliore dei casi, potrebbero contribuire a una vittoria politica che cambierebbe gli equilibri interni al partito; nel peggiore, avrebbero comunque riconquistato una soggettività politica oggi del tutto smarrita. Passare da semplici “oggetti” delle decisioni altrui a protagonisti del dibattito pubblico rappresenterebbe un passo decisivo verso il rilancio del partito e la definizione di un’identità chiara e coerente.

Il problema di fondo: identità e strategia

Il vero nodo del PD, in definitiva, riguarda la sua identità. Tra spinte movimentiste e radicali, che si concentrano sui diritti civili, e una tradizione riformista di governo, il partito appare oggi intrappolato tra due poli opposti, senza riuscire a esprimere una linea unitaria e convincente. La sfida del referendum costituzionale del 2026 sarà, in questo senso, un vero e proprio test: quale anima prevarrà? Quella movimentista e radicale o quella riformista e moderata?

Solo affrontando con coraggio questa scelta, il PD potrà sperare di uscire rafforzato da questa prova, evitando di rimanere prigioniero di una retorica minoritaria e di un linguaggio che non parla più né ai ceti produttivi né ai lavoratori. La partita del 2026 sarà, in definitiva, una cartina di tornasole fondamentale per il futuro del partito e del sistema politico italiano.