L’industria lancia l’allarme: l’euro ha ucciso produzione e investimenti

Vent’anni di euro hanno visto l’Italia ritrovarsi tra i Paesi “sconfitti” dall’integrazione monetaria. Come confermato da economisti premiati col Nobel come Joseph Stiglitz, Roma ha pagato più di quasi tutti gli altri Paesi dell’Eurozona il modello di politica economica basato su un regime di cambio fisso monetario e sulla svalutazione interna del fattore lavoro, secondo una dinamica che privilegia le esportazioni di un piccolo nucleo di nazioni raccolte attorno alla Germania.

E nessun dato certifica meglio questa situazione problematica quanto quelli che si traggono dall’analisi della domanda interna e della produzione industriale, in pieno avvitamento in una fase di crisi delle esportazioni su base comunitaria. Il combinato disposto di queste problematiche è rappresentato dal crescente peso assunto dalle importazioni nel soddisfacimento dei consumi nazionali italiani, a testimonianza del progressivo depauperamento di un tessuto industriale che prova a inseguire i modelli export-led del resto d’Europa ma non a orientarsi in maniera proficua sul territorio nazionale.

Meno investimenti deprimono la domanda interna
Questo per un motivo molto semplice: le coscienti politiche di “distruzione della domanda interna”, per usare le celebre parole di Mario Monti, che hanno portato a un progressivo tracollo del maggiore volano della crescita della domanda interna, gli investimenti in conto capitale privati e, soprattutto, pubblici. “Rispetto al 2009, l’Italia ha tagliato del 37,1% la spesa pubblica per investimenti, passando dai 54,1 miliardi del 2009 ai 34 miliardi del 2017, con una riduzione di circa 20,1 miliardi di euro”, ha scritto l’Agicitando una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat. “Si tratta del valore più basso fatto registrare dal 2004 ad oggi. Negli ultimi otto anni la spesa pubblica per investimenti in Italia è quindi calata in media di 2,5 miliardi ogni anno. In termini assoluti una riduzione ancora più significativa si è verificata soltanto in Spagna (-32,1 miliardi)”.

Dall’austerità montiana alla manovra dell’attuale governo, passando per gliesecutivi Pd, l’investimento pubblico, strumento per eccellenza per garantire una crescita di lungo termine, è stato relegato al ruolo di Cenerentola della politica economica. E in seno all’esecutivo osservatori attenti delle dinamiche geoeconomiche planetarie come Paolo Savona avevano avvertito, rilanciando gli allarmi di esperti del settore come Giulio Sapelli, sulla necessità di rilanciarli per attivare una crescita sostenuta basata su politiche capaci di anticipare gli effetti del negativo ciclo economico. Le richieste sono rimaste, però, lettera morta.

Meno investimenti, più importazioni
Per pagare il “rispetto delle regole” abbiamo pregiudicato lo sviluppo del mercato interno. E il vincolo monetario imposto dall’euro ci ha intrappolato in un vicolo cieco. Essendo stati nel 2017 i consumi pari a 955 miliardi, abbiamo importato poco più di 470 miliardi di euro per soddisfarli. Se avessimo mantenuto la struttura produttiva del 1995, le importazioni sarebbero ammontate a circa 310 miliardi. In altre parole, 160 miliardi di importazioni in più che si sottraggono al nostro Pil, il 10% del totale usando i prezzi del 2010.

Sono recenti i dati Istat che segnalano un crollo della produzione industriale su base annua, il cui indice a dicembre 2018 è diminuito in termini tendenziali del 5,5%, complice anche l’eccessiva sproporzione verso le esportazioni che ha portato il nostro tessuto produttivo a subire i contraccolpi del rallentamento della Germania. E come aggiunge StartMag, “è di questi giorni, per altro, la notizia del calo dei salari reali (le retribuzioni aggiustate al costo della vita) del 4,3% tra il 2010 e il 2017 (dato European trade union institute): l’Italia è in coda all’Eurozona, con una flessione appena inferiore a quella della Spagna (-4,4%) e sulla scia dei record negativi di Croazia (-7,9%), Portogallo (-8,3%), Cipro (-10,2%) e Grecia (19,1%), mentre Germania (+8,3%) e Francia (3,9%) si attestano su valori positivi”.

La svalutazione interna, in questo senso, si è già concretizzata. E per l’Italia questo stato di cose ha già causato problematiche abbastanza gravi. Prendere consapevolezza dell’insensatezza dei comportamenti adottati in passato dovrà essere un presupposto notevole per garantire l’impostazione di un’agenda di politica realmente orientata alla crescita. Capace di ridare dignità al lavoro e, soprattutto, di riportare sulla corretta direzione il percorso della crescita economica.

Fonte Gli Occhi della guerra