Gaza, l’orrore della dottoressa: “I miei 9 figli carbonizzati. Vi prego, salvate l’unico rimasto in vita”

Nel cuore di un conflitto che sembra non avere fine, emergono storie di umanità e disperazione che attraversano le rovine della guerra, portando alla luce il volto più autentico della sofferenza. Non sono numeri o statistiche, ma nomi, volti e famiglie spezzate che cercano ancora un senso in un mondo sconvolto.

Il 23 maggio, in un’area martoriata dai bombardamenti, una donna, Alaa al-Najjar, medico al Nasser Hospital, ha vissuto l’orrore di perdere tutto. Dopo aver sentito un attacco a poca distanza dall’ospedale, ha abbandonato il reparto pediatrico dove lavorava per correre verso casa, convinta che fosse un falso allarme. Ma quando è arrivata, ha trovato la sua abitazione completamente distrutta, e tra le macerie i corpi dei suoi figli e dei suoi cari.

«Ho visto la mia casa a terra e i miei figli martirizzati, carbonizzati, irriconoscibili. Ho identificato solo il mio piccolo Rival, di 4 anni», racconta con la voce rotta dal dolore, aiutata dalla nipote Samah, anche lei dottoressa. Tra le macerie restano Yahya, 12 anni, e la piccola Sidra, di appena sei mesi. Solo il marito Hamdi, anch’egli medico, e il loro figlio Adam, undicenne, sono sopravvissuti all’attacco. Hamdi è in condizioni critiche, sottoposto a interventi al cervello e ai polmoni, mentre Adam, ferito a un braccio, sta lentamente migliorando.

In quella giornata infernale, Alaa ha perso anche il telefono che conteneva tutte le immagini della sua famiglia, l’ultima traccia tangibile di una vita prima della distruzione. Ora, spesso, chiede di rivedere quelle foto e quei video, come un modo per aggrapparsi a ciò che è stato e mantenere vivo il ricordo dei suoi cari.

«I miei figli erano dieci: educati, curiosi, studiosi del Corano, appassionati di matematica, scienze e inglese. Ognuno con la propria personalità, le proprie passioni. Rival adorava i biscotti, Yahya preparava insalate, Eve giocava con le Barbie», racconta Samah, implorando che i loro nomi non siano dimenticati, che non diventino solo numeri tra le vittime.

L’unico desiderio di Alaa oggi è la speranza di un futuro più sicuro: «Vogliamo solo vivere sicuri. Basta morti, basta dolore. Vorrei che mio marito e mio figlio potessero essere curati all’estero. Solo così possono avere una possibilità».

Queste storie di dolore e resilienza ci ricordano che dietro ogni numero ci sono vite, sogni e famiglie che lottano per sopravvivere in un contesto di devastazione e violenza. È un appello a non dimenticare, a tendere la mano e a cercare soluzioni che possano portare pace e speranza in un territorio segnato da troppe ferite aperte.

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