Conte non passerà alla Storia (e Churchill gli spiega perché)

“Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. Il povero don Abbondio aveva torto due volte: innanzitutto perché aveva lasciato che la povera Lucia finisse nelle mani del perfido don Rodrigo e poi perché il coraggio, essendo una virtù, si può (e si deve) coltivare.

Lo sapevano bene i greci che, con il termine aretè, indicavano inizialmente la forza e il coraggio in battaglia. Stesso concetto espresso con la parola virtus dai romani. Virtù, intesa sia come virtù militare, ma anche come elemento che rende l’uomo davvero uomo. Che lo eleva.

Citazione per citazione, ricordiamo quanto scriveva il primo ministro italiano, Giuseppe Conte, il 9 marzo 2020: “In questi giorni ho ripensato ad alcune vecchie letture, a Winston Churchill. Questa è la nostra ‘ora più buia’. Ma ce la faremo”. Eravamo, in quei giorni, nel pieno dell’epidemia. Ogni giorno il “bollettino di guerra” della protezione civile parlava chiaro: migliaia di contagiati e centinaia di morti provocati dal Covid-19. Nove giorni dopo, sulle nostre televisioni sarebbe apparsa l’immagine simbolo dell’emergenza: i mezzi dell’esercito che, lenti, portano via le bare dei bergamaschi. Quella era davvero la nostra ora più buia? E le salme di Bergamo erano davvero la nostra Dunkerque? Forse, anche se il paragone tra un conflitto mondiale e una pandemia pare comunque ardito. Quel che è certo è che non avevamo un Churchill pronto a resistere.

In un articolo di Francesco Verderami pubblicato sul Corriere di ieri si legge infatti: “La centralità di Conte è Conte, come raccontano nel governo citando un aneddoto del momento più grave della pandemia. Allora il presidente della Lombardia Fontana chiese al presidente del Consiglio di testimoniare la vicinanza dell’esecutivo con una sua visita, e si sentì inizialmente rispondere: ‘Vediamo… Sai, se poi mi ammalo, come si fa?'”. L’aneddoto, nel momento in cui scriviamo, non è stato smentito da Palazzo Chigi. Ammettiamo dunque che sia vero. È rivelatore di un animo, quello del presidente del consiglio italiano, che non può essere paragonato a Churchill che, durante i raid tedeschi, correva sui tetti per verificare i danni provocati dai bombardieri. Oppure Churchill che vola più volte in Francia, nonostante l’avanzata tedesca nel continente e quella nei cieli della Lutwaffe. Tra maggio e giugno, il primo ministro britannico raggiunge il governo francese almeno dieci volte. Oltre le nuvole vede città in fiamme e si chiede se, forse, non c’è più niente da fare. Fa quello che deve fare e basta. E quando è in cielo non si chiede che cosa farà il suo Paese nel caso in cui dovesse morire. Perché i politici, anche i migliori, vanno e vengono. Le nazioni restano.

A dividere Conte e Churchill non è solo il coraggio. C’è anche la lungimiranza politica. Durante la sua “ora più buia”, infatti, è Churchill a chiamare le opposizioni al governo nelle persone di Clement Attlee e Arthur Greenwood. Anzi, Il 28 maggio, l’ultimo dei cinque giorni descritti con maestria da John Lukacs, il primo ministro britannico si spinge ancora più in là e pensa di far entrare nell’esecutivo Lloyd George, suo avversario, che chiedeva la pace con Hitler. Come mai? “L’intento principale di Churchill non era rinsaldare solo la fiducia, ma anche l’unione nazionale. Ma c’era anche un’altra ragione dietro a questo: se il peggio fosse accaduto? E sarebbe accaduto? Churchill era abbastanza uomo di Stato per pensare anche a questa eventualità”, commenta Lukacs. Una differenza abissale con chi, in piena emergenza, se la prese con le opposizioni.

Churchill aveva una visione. Di se stesso e del mondo. Per questo si batté per tutta la sua vita. Era certo di una cosa: la sua esistenza era chiamata a qualcosa di grande, che andava oltre le contingenze. Persino oltre la vita. Giovanissimo, scrisse alla madre prima di dirigersial fronte: “Ho fede nella mia stella. Sono destinato a far qualcosa a questo mondo. Che importa se mi sbaglio? La mia vita è stata piacevole e, anche se rimpiangerei di doverla lasciare, sarà forse un rimpianto che non conoscerò mai”. Una differenza abissale con la stella (cadente) della politica italiana.