Yamal e la mano fasciata, “Ecco perché lo fanno”: cosa dice l’esperto
Durante la semifinale di Champions League contro l’Inter, alcuni calciatori del Barcellona, tra cui il giovane talento Lamine Yamal e il brasiliano Raphinha, sono scesi in campo con il polso fasciato, pur senza alcun recente infortunio noto. Il dettaglio non è sfuggito ai tifosi e agli osservatori più attenti, tanto da sollevare domande sulle reali motivazioni dietro a questa scelta apparentemente inspiegabile. Il gesto è diventato talmente ricorrente da alimentare speculazioni di ogni tipo. C’è chi ha parlato di moda, chi di protezione preventiva, e chi — come un ex medico del Real Madrid — ha sollevato, seppur senza prove, un dubbio velato su possibili pratiche dopanti, facendo riferimento al contesto medico-sportivo. Ma cosa c’è davvero dietro queste fasciature?

Yamal e i calciatori del Barcellona con la mano fasciata: il vero motivo
La spiegazione più plausibile arriva da Andrea Bernetti, segretario generale della Simfer (Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa), che in un’intervista all’Adnkronos Salute chiarisce: “Una delle motivazioni più diffuse è legata a questioni di scaramanzia. I giocatori, dopo aver usato le fasciature per motivi legati a infortuni, non le hanno più rimosse anche in seguito”. La scaramanzia nello sport non è certo una novità. Dai calzini “fortunati” ai riti pre-partita, gli atleti spesso seguono rituali ripetitivi nella speranza di replicare prestazioni vincenti. “Basti pensare a De Rossi con la maglia a maniche diverse o ai riti meticolosi di Nadal prima di ogni servizio”, sottolinea Bernetti. In questo contesto, il bendaggio del polso diventa un simbolo personale, un’àncora mentale che richiama sicurezza, controllo e continuità.

L’effetto placebo: quando la mente migliora la performance
Oltre alla scaramanzia, esiste anche una spiegazione scientifica del fenomeno. Secondo Bernetti, la fasciatura può innescare un effetto placebo, cioè un miglioramento reale delle performance o del benessere indotto dalla convinzione che quella pratica abbia un effetto benefico, anche se non lo ha. “L’effetto placebo nello sport si manifesta attraverso diversi meccanismi. Il più studiato è il rilascio di neurotrasmettitori che agiscono sul sistema nervoso centrale, migliorando l’umore, riducendo il dolore e aumentando la motivazione”, spiega Bernetti. In altre parole, se un giocatore crede che quella benda lo protegga, lo renda più forte o più fortunato, il corpo reagisce di conseguenza, potenziando effettivamente la sua prestazione.
Endorfine e concentrazione: cosa succede davvero al corpo dell’atleta
Dal punto di vista fisiologico, l’effetto placebo può essere molto concreto. La percezione di un miglioramento può portare l’organismo a produrre endorfine, gli ormoni del benessere, che aiutano a ridurre la percezione della fatica, aumentare la soglia del dolore e migliorare l’attività muscolare. Tutto questo si traduce in una performance più alta, anche se il gesto che la innesca – come un semplice bendaggio – non ha alcuna funzione medica oggettiva. “La mente, se convinta dell’efficacia di un determinato trattamento, genera risposte fisiologiche reali”, ribadisce Bernetti. È una reazione psicosomatica molto studiata anche in ambito clinico, che nello sport trova un terreno fertile, dove la differenza tra una vittoria e una sconfitta può passare da dettagli minimi.

Nessuna prova di doping: le speculazioni restano infondate
Nonostante l’ipotesi, ventilata da un ex medico del Real Madrid, che le bende potessero nascondere pratiche poco lecite, non esiste alcuna evidenza o prova concreta che colleghi i fasciaggi dei giocatori del Barcellona a fenomeni di doping. Si tratta di illazioni prive di fondamento, facilmente smentite anche dai controlli anti-doping regolarmente effettuati dalla UEFA. Nel calcio moderno, dove ogni movimento è studiato, monitorato e analizzato, un gesto ripetitivo come una benda può avere molto più a che fare con la psiche dell’atleta che con esigenze mediche o irregolarità. Come spiega Bernetti: “La mente influenza il corpo, e lo fa ogni giorno. Nell’atleta questo legame è amplificato: credere di poter vincere è spesso il primo passo per riuscirci davvero”.