88 mln bruciati, quorum ko e sinistra nel caos: ecco perché il voto dell’8‑9 giugno è un boomerang
Domenica 9 giugno alle 23, la fotografia dell’affluenza alle urne è impietosa: solo il 30 % degli aventi diritto ha scelto di partecipare, con circa 17,5 milioni di italiani su 58,9 milioni che hanno deciso di restare a casa o di godersi la spiaggia. Un dato che ha lasciato sgomenti analisti e politici, considerando i costi elevati sostenuti per questa consultazione: oltre 88 milioni di euro, spesi per allestire oltre 61 mila seggi, reclutare 246 mila scrutatori e stampare 80 milioni di schede, molte delle quali sono finite nel macero.
Un risultato che mette in discussione la legittimità e l’efficacia di un processo che avrebbe dovuto rappresentare un momento di confronto e cambiamento. Ma cosa è andato storto?
Il paradosso del Jobs Act e il cortocircuito interno al PD
Tra i quesiti proposti spiccava l’abrogazione delle norme fondamentali del Jobs Act, la riforma del lavoro varata nel 2014 dal Partito Democratico. Un quesito che, invece di rafforzare il senso di coesione e di coerenza del centrosinistra, ha generato confusione e delusione tra gli elettori. Un deputato Dem, in anonimato, ha ammesso: «Ci siamo sparati sui piedi». Il risultato? L’elettorato ha preferito non mobilitarsi, giudicando incoerente la battaglia, e il risultato finale ha evidenziato una perdita di credibilità e di consenso.
Il mito della cittadinanza “facile” e il suo fallimento
Il quesito simbolo sullo ius culturae, che proponeva di dimezzare da 10 a 5 anni l’attesa per la cittadinanza ai giovani extracomunitari, ha ottenuto un 60,4 % di “sì”. Tuttavia, il dato è viziato da un campione ristretto: solo il 30 % degli aventi diritto è entrato in cabina, con quasi 5 milioni di schede “no”. In termini assoluti, i favorevoli non superano gli 11 milioni, un risultato insufficiente per rivendicare un mandato popolare forte e rappresentativo.
Numeri che smentiscono la “soglia Landini” e le aspettative progressiste
Secondo le analisi di YouTrend di Lorenzo Pregliasco, il fronte progressista sperava di superare i 12,3 milioni di “sì” necessari per rivendicare un successo morale. Ma i numeri ufficiali raccontano un’altra storia: circa 12,25 milioni di “sì” sui quesiti sui licenziamenti, 11,9 milioni sulla precarietà e 11,4 milioni sul salario minimo. Anche considerando il voto estero, con circa 1,1 milioni di schede valide, il totale si ferma appena sopra i 13 milioni, appena sopra i risultati ottenuti da Fratelli d’Italia nel 2022. Un dato che smonta le illusioni di un “sfratto” al governo e di un’onda progressista inarrestabile.
Il malessere nei territori e la percezione di distanza dalla politica
L’affluenza si è fermata in media al 22 % nei capoluoghi del Sud, e anche in città considerate roccaforti rosse come Firenze (38 %) e Bologna (41 %), l’interesse alle urne è stato scarso. Un consigliere emiliano ha commentato: «La gente chiede contratti stabili e sanità locale. Ha percepito il referendum come una guerriglia di palazzo». La crisi sociale e la percezione di distanza tra cittadini e istituzioni sono evidenti.
L’economia reale e le priorità ignorate
Gli esperti sottolineano che l’Italia soffre di un gap tra domanda e offerta di lavoro: 3 milioni di part-time involontari e 1,1 milioni di posti vacanti per mancanza di competenze digitali. Tuttavia, la campagna referendaria si è concentrata su TikTok, meme e talk show, trascurando il tessuto produttivo reale, che fatica a trovare saldatori, infermieri e data analyst. La vera sfida resta quella di investire in formazione, innovazione e politiche migratorie selettive.
La frattura tra generazioni e la scarsa consapevolezza
Un sondaggio SWG post-voto rivela che il 57 % degli under-30 non sapeva nemmeno elencare due dei quattro quesiti. Il “referendum di civiltà” si è così ridotto a un “referendum di nicchia”, lontano dal coinvolgimento di larga parte della popolazione giovanile e dalla capacità di mobilitare un consenso ampio.
Il conto politico e le prospettive future
Il flop di questa consultazione consegna tre certezze: l’astensionismo strutturale, che raggiunge il 70 %, si conferma come il vero “partito” di maggioranza; il Partito Democratico appare diviso tra la linea identitaria di Schlein e quella più realista dei governatori; e l’asse tra sindacati, M5S e altre sigle non riesce a trasformare l’attivismo online in voti concreti.
Intanto, Palazzo Chigi ha archiviato la questione, annunciando che nessuna consultazione popolare sarà indetta per i prossimi tre anni. Il centrodestra gongola, rilanciando sul taglio del cuneo fiscale, mentre la sinistra si trova a dover spiegare agli italiani perché ha speso 88 milioni di euro per un risultato che appare politicamente dannoso.